Lo shedeh, misterioso nettare di Tutankhamon

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La nostra tradizione vinicola richiama spesso l’eredità greco-romana. Ma la coltivazione della vite e la tradizione del vino si estendono ben oltre quest’area geografica e risalgono a un passato molto più antico. Basta pensare al racconto biblico, la cui stesura, a partire da tradizioni orali più antiche, si estende nel millennio precedente la nostra era. Nella Genesi, Noè appena sbarcato dopo il diluvio pianta una vigna… e si ubriaca[1]. Mentre l’amata del Cantico dei Cantici dichiara al suo partner: “Le tue carezze sono più dolci del vino”[2].

Scena di vendemmia, Tomba di Nakht (TT 52) risalente al Nuovo Regno.

Stando alle ricerche più recenti, la domesticazione della vigna avvenne circa 11.000 anni fa nel Caucaso e nell’Asia occidentale. La coltura e i suoi prodotti derivati, tra cui il vino, si diffusero poi in tutto il bacino del Mediterraneo.

Già nel 3° millennio a.C., gli Egizi furono i primi a rappresentare il processo di vinificazione su bassorilievi che mostrano scene di vendemmia, calpestio e pressatura. Nell’antico Egitto, il vino – chiamato «irep» – era un prodotto d’eccezione riservato al ceto alto della società. Ma a partire dal Nuovo Regno (-1550 a.C. a -1085 a.C.), i testi menzionano una bevanda ancora più rara e prestigiosa del vino, lo shedeh. Si tratterebbe nientemeno che del dono del dio sole Ra ai suoi figli.

Di cosa era fatto questo misterioso shedeh? Qual era il suo processo di produzione? Il mistero è rimasto quasi completo fino a poco tempo fa. Infatti, gli autori egizi non ci forniscono informazioni in merito e gli indizi archeologici sono tanto rari quanto il prodotto stesso. Fino ad oggi non è stato trovato alcun resto di un’azienda vitivinicola. Bisognava quindi accontentarsi delle rare menzioni nei testi e delle rappresentazioni murali.

Ma nel 1922, l’archeologo Howard Carter scopre la tomba di Tutankhamon, l’undicesimo faraone del Nuovo Regno, più famoso per il suo tesoro che per il suo regno, che durò solo 10 anni. Ma nella tomba, tra i 5398 oggetti inventariati, si trovano otto giare con l’iscrizione “shedeh” sul tappo o sul corpo. Alcune di esse sono molto ben conservate, il che è decisivo per ciò che segue.

Per decenni, gli egittologi cercano di risolvere l’enigma dello shedeh. Per la maggior parte degli studiosi anglofoni, si trattava di una liquore di melograno e non di uva.

Nel 1995, l’egittologo francese Pierre Tallet ricomincia da capo, basandosi su tutti gli indizi disponibili, in particolare le iscrizioni sulle giare, che oltre al nome del prodotto, contengono indicazioni molto precise: provenienza, data, qualità, dominio, posizione geografica e nome del produttore. Punto per punto, costruisce la scheda tecnica della bevanda misteriosa[3].

Innanzitutto, lo shedeh era di grande qualità e piuttosto rara. Secondo l’unico papiro che ne parla durante il periodo faraonico, si produceva solo una giara di questa bevanda per ogni 30 di vino. Una proporzione coerente con quella delle giare ritrovate. Il nome shedeh è spesso seguito dall’aggettivo« “nefer nefer”, buono per due volte, cioè eccellente.

Inoltre, Pierre Tallet stabilisce che si trattava certamente di una preparazione a base di uva. Indizio chiave: i nomi dei produttori di shedeh sono gli stessi di quelli dei vini. Si tratta quindi di viticoltori che producono una gamma di prodotti con il proprio raccolto.

L’archeologo osserva anche che lo shedeh poteva essere conservato come un “vino da invecchiamento”. Infatti, la tomba di Tutankhamon fu sigillata nell’anno 10 del suo regno e al suo interno si trovava dello shedeh prodotto 5 o 6 anni prima. A meno di considerare che per il suo ultimo viaggio al di là fosse stato dato al faraone un vino invendibile, ciò significa che la bevanda poteva conservarsi senza problemi per anni.

Infine, Pierre Tallet ritiene che lo shedeh doveva essere un vino liquoroso, sia molto dolce che molto alcolico. L’arte poetica d’amore egiziana lo cita spesso in un registro simile a quello del Cantico dei Cantici evocato in precedenza[4].

Quanto al tenore alcolico dello shedeh, potrebbe derivare da un processo di produzione che comporta una riduzione del mosto mediante cottura. Questo procedimento aumentava il contenuto di zucchero, che può produrre alcol durante la fermentazione. Si poteva così raggiungere un valore di circa quindici gradi. Si impediva così al vino di trasformarsi in aceto e spiegava le sue qualità di conservazione.

La riduzione del mosto mediante cottura è inoltre un processo che verrà successivamente descritto nei dettagli dagli autori romani. Nel I secolo, Columella segnala che richiede una vigilanza e una mescolatura costanti per evitare di bruciare la preparazione[5]. Plinio precisa che il mosto viene ridotto di un terzo per produrre il defrutum (condimento a base di mosto), e a metà per la sapa (sciroppo di uva anch’esso usato come condimento)[6].

Tutte le indagini, tuttavia, si basavano finora su osservazioni e deduzioni, soggette a controversie.

Ma i progressi delle tecniche di analisi hanno permesso di risolvere la questione. All’inizio del XXI secolo, due scienziate spagnole, Rosa Lamuela-Raventós e Maria Rosa Guasch-Jané, hanno ottenuto il permesso di studiare un campione di residuo di una giara di shedeh proveniente dalla tomba di Tutankhamon. Hanno potuto stabilire con certezza che la bevanda era vino, inoltre prodotto con uva rossa[7].

Ora sappiamo con certezza che il nettare che i faraoni consumavano e si portavano nell’aldilà era effettivamente un dono divino della vite.

[1] Genesi, 9, 20-21.

[2] Cantico dei Cantici, I, 2.

[3] Tallet P. Le shedeh; étude d’un procédé de vinification en Égypte ancienne. BIFAO 1995;95:459-92.

[4] Ad esempio, il papiro Harris 500 menziona l’amarezza di una donna innamorata a causa dell’assenza dell’amato: “Lo shedeh dolce, nella mia bocca, è come il fiele degli uccelli”.

[5] Columella, De re rustica, Libro XII, Capitolo 19.

[6] Plinio, Storia naturale, XVI, 11, 80.

[7] Maria Rosa Guasch-Jané, Cristina Andrés-Lacueva, Olga Jáuregui, Rosa M. Lamuela-Raventós, The origin of the ancient Egyptian drink Shedeh revealed using LC/MS/MS, Journal of Archaeological Science, Volume 33, Issue 1, 2006, Pages 98-101, ISSN 0305-4403.


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