Tradotto dal francese
L’alimentazione romana racconta una storia di conquiste e di meticciato culturale. Tra eredità etrusca, influenza greca e innovazioni propriamente romane, la tavola evolve al ritmo delle trasformazioni sociali e territoriali dell’Impero.

Nel teatro di Plauto, i Romani appaiono agli occhi dei Greci come «mangiatori di pappa» (pultiphagi)[1]. Una derisione che non è senza fondamento. Prima della comparsa di specie di cereali panificabili, i Romani consumavano soprattutto i loro grani sotto forma di pappa, la puls.
L’interesse che Plinio il Vecchio riserva ancora a questa preparazione mostra che nel I secolo d.C. la pappa di cereali conservava una certa importanza[2], soprattutto nei riti religiosi tradizionali, perpetuati durante tutto il periodo imperiale.
Dal punto di vista alimentare, la pappa di base può essere arricchita con verdure tritate, pezzi di carne, formaggio o erbe per produrre piatti simili al risotto moderno. Una ricetta elaborata, attribuita alle legioni di Cesare, associava farro, carni macinate, aromi (pepe, levistico, finocchio) e pane raffermo, il tutto legato da una riduzione di vino. Questo “stufato giuliano” (Pultes Iulianae[3]) simboleggiava l’essenza stessa della cucina romana.
Alla base, cereali e legumi
I cereali e le leguminose costituivano così la base del regime alimentare, fornendo oltre due terzi dell’apporto energetico quotidiano della popolazione. I cereali comprendevano diverse varietà di frumento –farro (Triticum dicoccum), grano monococco ed espelta– oltre all’orzo, meno apprezzato, al miglio e all’avena.
Le leguminose comprendevano la lenticchia, il cece, la veccia amara, la fava, il pisello da orto e la cicerchia. Plinio menziona diverse varietà coltivate, tra cui un pisello detto «di Venere»[4]. Virgilio, come Marziale, elogia nei suoi versi le lenticchie importate da Pelusio[5], porto del delta orientale del Nilo.
L’alternanza tra leguminose e cereali permetteva di rigenerare i terreni, costituendo al tempo stesso riserve strategiche contro le carestie. Sebbene abitualmente considerate un piatto modesto, le leguminose compaiono anche tra le vivande dei banchetti.
Il pane apparve relativamente tardi a Roma, nel III secolo a.C. Le popolazioni urbane e l’esercito preferivano consumare il grano sotto questa forma. Le classi inferiori mangiavano un pane scuro e grossolano, fatto di farro o di orzo. I pani bianchi più raffinati erano lievitati grazie a lieviti selvatici e a colture di pasta madre. I Celti bevitori di birra della Spagna e della Gallia erano noti per la qualità dei loro pani lievitati con lievito di birra.[6]
Mantenere un forno da pane richiedeva molto lavoro e spazio; è quindi verosimile che gli abitanti degli appartamenti preparassero l’impasto in casa per poi portarlo a cuocere in un forno comune. I mulini e i forni commerciali, generalmente riuniti in un unico complesso di panetteria, erano considerati così vitali per il benessere di Roma che numerose feste religiose onoravano le divinità che favorivano questi processi, e persino gli asini impiegati nei mulini. Vesta, dea del focolare, era considerata complementare a Cerere, dea del grano. Durante la Festa di Vesta, gli asini venivano adornati di ghirlande e potevano godere di un periodo di riposo. Il legame tra focolare e grano si manifesta anche nelle Fornacalia, celebrate in febbraio. Questa festa onorava Fornace, dea dei forni da pane.

Il giardino, ideale di frugalità e di autosufficienza
A causa dell’importanza della proprietà fondiaria nella formazione dell’élite culturale romana, i Romani idealizzano l’agricoltura e la vita rurale. Le verdure a foglia verde e le erbe sono consumate crude, in insalata, condite con aceto e talvolta con olio. Le verdure cotte, come barbabietole, porri o zucche, sono preparate con salse e servite sia all’inizio del pasto (gustatio), sia come semplici accompagnamenti al pane.
Le fonti antiche e archeologiche attestano il consumo di oltre una ventina di varietà di ortaggi e verdure. Le olive, fresche o conservate, erano disponibili in un’ampia gamma di qualità, anche per le categorie più modeste. Quanto ai tartufi e ai funghi selvatici, pur non costituendo un alimento quotidiano, sembrano essere stati raccolti e consumati regolarmente.
Il cavolo (brassica), celebrato da Catone il Censore per le sue virtù alimentari e medicinali, così come le rape (napus) e le ravanelli (rapa), figurano tra gli ortaggi più apprezzati. Le leguminose, in particolare le fave (fabae), occupano un posto importante nell’alimentazione delle categorie lavoratrici e modeste.
Nell’immaginario romano, il cittadino esemplare si nutre dei prodotti coltivati nel proprio giardino: questa immagine, ampiamente idealizzata, rimanda a una morale agraria che valorizza la frugalità e l’autosufficienza. I prodotti provenienti dalla coltivazione dei campi e degli orti sono così percepiti come gli alimenti più «civilizzati», in opposizione alle vivande associate alla caccia.
L’approvvigionamento di ortaggi della città di Roma si basa sia sulle campagne vicine sia su regioni rinomate per produzioni specifiche: Ostia è associata ai porri, Ravenna agli asparagi, l’Africa punica a diverse colture orticole specializzate. Alcuni imperatori stessi manifestano una spiccata predilezione per i vegetali, come Tiberio per il cetriolo – che fece coltivare tutto l’anno – o Nerone per il porro.
Le province esportano frutti secchi regionali, come i fichi di Caria e i datteri di Tebe, e gli alberi da frutto provenienti dall’Oriente si diffondono progressivamente in tutto l’Impero occidentale: la ciliegia originaria del Ponto (nell’attuale nord-est della Turchia); la pesca (persica) proveniente dalla Persia; il cedro e altri agrumi allora conosciuti; l’albicocca d’Armenia; la prugna detta «damascena» (da Damasco in Siria); infine quella che i Romani chiamano la «mela punica», cioè il melograno dell’Africa settentrionale.
Le fonti antiche attestano anche il consumo di more, ribes, bacche di sambuco, cotogne, meloni, uva, mele e pere.
Il frutto più largamente consumato e più emblematico dell’alimentazione romana è il fico. Gli autori antichi ne distinguono quarantaquattro varietà diverse. Fresco, non è consumato come dessert nel senso moderno, ma piuttosto come accompagnamento del pane o come alimento complementare nel corso del pasto.
Le bacche sono sia coltivate sia raccolte allo stato selvatico. Tra i frutti a guscio più comuni figurano mandorle, nocciole, noci, pistacchi, pinoli e castagne. Le fonti agronomiche attestano inoltre che gli alberi da frutto e quelli a guscio possono essere innestati per produrre più varietà su un unico tronco.
Lo statuto ambiguo della carne
Sebbene alcuni Romani eminenti abbiano scoraggiato o disprezzato il consumo di carne – come gli imperatori Didio Giuliano e Settimio Severo – i macellai romani offrivano una vasta gamma di carni fresche, in particolare maiale, manzo, montone o agnello, nonché pollame, soprattutto pollo.
In assenza di refrigerazione, furono messe a punto diverse tecniche di conservazione per la carne, il pesce e i prodotti lattiero-caseari. In una logica di economia domestica e artigianale, nessuna parte dell’animale veniva inutilmente sprecata, il che spiega la produzione di sanguinacci, polpette di carne (isicia), salsicce e stufati. Le popolazioni rurali salavano prosciutti e lardo, mentre alcune specialità regionali – come i prosciutti salati della Gallia – erano oggetto di un commercio apprezzato. Le salsicce di Lucania, infine, erano preparate a partire da un miscuglio di carni tritate, erbe e talvolta frutta secca, legate con uova, quindi sottoposte a una stagionatura mediante affumicatura.
Le categorie modeste consumano anch’esse carne, ma il più delle volte di qualità inferiore e sotto forme trasformate. Essa è preparata in stufati, in polpette (isicia) o tagliata in piccoli pezzi (ofellae).
Il filosofo stoico Musonio Rufo, che promuove un regime vegetariano, considera i mangiatori di carne non solo meno civilizzati, ma anche «più lenti di spirito»[7]. Nel discorso romano, i «barbari» sono frequentemente stereotipati come carnivori voraci. Così, Massimino Trace, primo imperatore nato da due genitori qualificati come barbari e regnante dal 235 al 238 d.C., è descritto come divoratore di quantità smisurate di carne[8].

Il pesce, marcatore sociale, e il garum, condimento universale
I Romani attribuiscono grande importanza ai prodotti del mare. Il consumo di pesce non riguarda soltanto l’alimentazione, ma costituisce anche un marcatore sociale, che permette di affermare il proprio rango e il proprio stile di vita. Nelle commedie di Plauto, i personaggi manifestano un gusto pronunciato per il pesce e i molluschi, spesso associati al lusso, alla spesa e al piacere della tavola[9].
Già alla fine della Repubblica, furono realizzate installazioni specializzate – vivai per pesci (piscinae) e parchi ostricoli – principalmente nei domini delle élite, allo scopo di garantire un approvvigionamento regolare di prodotti marini.
I pesci di grandi dimensioni potevano raggiungere prezzi considerevoli: Plinio il Vecchio riferisce somme comprese tra 5.000 e 8.000 sesterzi per grandi triglie, citate come esempi di lusso eccessivo[10]. I crostacei – aragoste, gamberi, scampi – erano anch’essi molto apprezzati, così come i molluschi e i ricci di mare. Le ostriche figurano tra i prodotti più ricercati; venivano spedite lontano dai luoghi di produzione, fino alle province del Nord, in particolare in Germania e nelle regioni alpine.
I Romani consumavano anche pesce conservato, il più delle volte salato o in salamoia. Questi prodotti provenivano da numerose province dell’Impero – dalla Spagna meridionale alla Sicilia e fino al Ponto – e testimoniano l’ampiezza delle reti commerciali legate alle risorse marine.
Il sale costituisce il condimento fondamentale della cucina romana. Plinio il Vecchio ne sottolinea l’importanza capitale[11], al punto che il termine latino sal è venuto, per estensione, a designare lo spirito, la battuta arguta o il motto di spirito.
Prodotto commerciale essenziale, il sale puro restava tuttavia relativamente costoso. Il condimento salato più comunemente utilizzato è il garum, salsa di pesce fermentata, che conferisce una sapidità intensa corrispondente a quella che oggi si definisce come sapore «umami». I principali centri di produzione ed esportazione del garum si trovavano nelle province della Spagna.
I condimenti disponibili localmente comprendevano le erbe dell’orto, il cumino, il coriandolo e le bacche di ginepro. Il pepe rivestiva un’importanza tale nella cucina romana che furono concepiti contenitori specifici, talvolta riccamente decorati – i piperatoria – per conservarlo. Il piper longum era importato dall’India, così come il nardo, aroma di grande valore utilizzato in particolare per profumare alcune vivande raffinate, come la selvaggina da piuma o i ricci di mare.
Tra le altre spezie importate figuravano lo zafferano, la cannella e il silphium della Cirenaica, pianta sfruttata eccessivamente fino a scomparire sotto il regno di Nerone[12]. Esso venne allora sostituito dal laser o laserpicium, generalmente identificato con l’asa fetida, importata dalle regioni orientali.
Questo gusto per i prodotti orientali non era privo di conseguenze economiche. Plinio stimava che i Romani spendessero ogni anno quasi 100 milioni di sesterzi per prodotti di lusso – spezie, aromi e profumi – provenienti dall’India, dall’Arabia e dalle regioni dette dei Seri (l’Estremo Oriente associato alla produzione della seta)[13].
Gli edulcoranti si limitavano essenzialmente al miele e allo sciroppo di mosto d’uva (defrutum). Lo zucchero di canna, prodotto esotico importato in quantità molto ridotte, non era utilizzato come dolcificante corrente: serviva piuttosto come guarnizione occasionale, come agente aromatizzante o entrava nella composizione di rimedi medicinali.
L’uso dell’aceto nella cucina romana è generale e costante. Nelle regioni dove il vino scarseggia, l’aceto viene preparato a partire da altri frutti, in particolare fichi, pere o pesche. Oltre all’aceto «ordinario», i Romani elaboravano anche preparazioni più complesse, come l’oxygarum – miscela di aceto, garum e spezie –, l’oxymeli, composto di miele e aceto, o ancora l’oxyporium, ottenuto per macerazione di spezie nell’aceto.
L’olio d’oliva e i prodotti lattiero-caseari
L’olio d’oliva era fondamentale non solo per la cucina, ma più in generale per il modo di vita romano, poiché, come in Grecia, era anche impiegato per l’illuminazione e per la cura del corpo, il bagno e la toilette. Per preparare le olive all’estrazione dell’olio si utilizzavano diversi dispositivi di frantumazione e spremitura, tra cui il trapetum – macina rotativa di cui alcuni degli esemplari più antichi sono attestati in Italia e nell’Egeo in siti anteriori al dominio romano.
Gli oliveti dell’Africa romana attiravano investimenti importanti e si distinguevano per una produzione abbondante, descritta dagli autori antichi come particolarmente vigorosa. Vi furono sviluppate grandi presse a leva per migliorare l’efficienza dell’estrazione. La Spagna costituiva anch’essa un grande centro di esportazione dell’olio d’oliva, anche se i Romani ritenevano il più fine quello dell’Italia centrale. A partire da oli importati si elaboravano preparazioni specializzate: l’olio di Liburnia (oleum Liburnicum) veniva così aromatizzato con enula, radice di cipero, alloro e sale.
Il burro, che si conserva male nel clima mediterraneo, era generalmente poco apprezzato dai Romani. Gli autori antichi lo presentano soprattutto come un prodotto caratteristico dei popoli del Nord, in particolare dei Galli, e non come un elemento centrale della cucina romana. Lo strutto, invece, era ben utilizzato, soprattutto per la cottura di alcune paste dolci e per condire piatti specifici.
Il latte fresco era impiegato nelle preparazioni mediche e cosmetiche e, più occasionalmente, in cucina. Il latte di capra o di pecora è quello più frequentemente menzionato nelle fonti ed è l’unico latte citato esplicitamente nell’editto di Diocleziano[14].Era generalmente considerato superiore a quello vaccino, giudicato meno digeribile[15]. Il formaggio, al contrario, si conservava e si trasportava più facilmente, il che ne faceva un prodotto comune sui mercati. Le fonti letterarie antiche ne descrivono in dettaglio la fabbricazione, sia per i formaggi freschi sia per quelli stagionati, per le specialità regionali o ancora per i formaggi affumicati.
Nella rappresentazione romana, il latte – alimento non trasformato – tende a essere associato ai popoli detti barbari. Tuttavia, gli autori antichi descrivono anche i primi Romani, così come i contadini della loro epoca, come consumatori di latte, il che attenua questa opposizione ideologica.
In cucina, il latte entra in diverse preparazioni chiamate lactentia, come pappe o patinae – termine che designa al tempo stesso il recipiente concavo e il tipo di pietanza che vi è preparata. Nulla indica che i Romani conoscessero procedimenti comparabili a quelli dei formaggi moderni a pasta cotta. Il latte veniva cagliato e poi scolato, secondo tecniche semplici.
Le fonti descrivono l’uso di latti diversi nella fabbricazione del formaggio, senza stabilire una gerarchia esclusiva. Columella menziona in particolare l’impiego del sale nelle preparazioni di formaggio di capra[16]. La conservazione dei formaggi si basava su vari procedimenti – salatura, affumicatura e disseccamento. Tra i formaggi affumicati, Marziale elogia quelli del Velabro per il loro sapore[17].

L’agricoltura e i mercati
Le autorità romane prestavano un’attenzione costante alla produzione agricola, nella misura in cui essa condizionava l’approvvigionamento delle città e la stabilità sociale. La produzione di derrate alimentari occupava così un posto centrale nello sfruttamento delle terre, accanto ad altre colture come la vite e l’olivo.
Le grandi aziende (latifundia) raggiungevano talvolta una forma di economia di scala che contribuiva a sostenere la vita urbana e una divisione del lavoro più specializzata, pur coesistendo con un tessuto denso di piccole e medie fattorie. La rete di trasporti dell’Impero, strade e vie marittime, facilitava lo smercio delle produzioni e permetteva ai piccoli agricoltori di accedere ai mercati locali e regionali delle città e dei centri commerciali.
I trattati agronomici antichi testimoniano la diffusione di tecniche agricole empiriche, come l’alternanza delle colture e la scelta ragionata delle sementi. Mostrano anche che alcune piante coltivate circolavano da una provincia all’altra al ritmo delle conquiste e degli scambi, contribuendo a una progressiva diversificazione delle produzioni regionali.
Al di là dei mercati urbani permanenti, una rete fitta di fiere scandiva la vita economica. Il ciclo più comune era quello delle nundinae, organizzate ogni nove giorni. A Pompei, gli archeologi hanno ritrovato un’iscrizione che fornisce il calendario delle fiere regionali della Campania, permettendo agli abitanti di recarsi a Nuceria, Atella, Cuma o Capua a seconda dei giorni[18].
Alcune fiere avevano luogo solo una volta all’anno, in occasione di feste religiose, come quella di Cremona nell’Italia del Nord, la cui fama superava il quadro locale.
Per organizzare e controllare le attività commerciali legate alle derrate deperibili, le autorità romane istituirono spazi specializzati, ispirati alle agorà commerciali greche: i macella. A Roma come nelle città delle province, vi si vendevano carni, pesci, formaggi, prodotti trasformati, olio d’oliva, spezie e l’onnipresente garum, in aggiunta alle piazze di mercato e agli altri circuiti di distribuzione urbana.
Il pane e i giochi: l’annona
Alla fine della Repubblica, garantire un approvvigionamento alimentare a prezzo accessibile per la città di Roma divenne una questione politica di primaria importanza. Lo Stato mise allora in atto distribuzioni pubbliche di grano (annona) destinate ai cittadini iscritti. Il sistema riguardò circa 200.000–250.000 beneficiari maschi adulti e si basò sulla consegna regolare di una razione di circa cinque modii di grano per persona.
L’approvvigionamento dell’annona mobilitò vaste reti mediterranee, principalmente la Sicilia, l’Africa settentrionale e, a partire dall’epoca imperiale, l’Egitto. I volumi necessari, valutati in decine di migliaia di tonnellate l’anno, rappresentarono un onere logistico e finanziario considerevole e fecero dell’annona una delle principali voci dell’azione pubblica romana.
Al di là della sua funzione alimentare, l’annona svolse un importante ruolo sociale ed economico. Migliorò le condizioni di vita delle categorie urbane modeste e contribuì alla stabilità sociale. Garantendo una parte essenziale del sostentamento, permise anche ai beneficiari di destinare una quota più rilevante dei propri redditi ad altri prodotti, in particolare il vino e l’olio d’oliva.
L’assegnazione del grano ebbe inoltre un forte valore simbolico: affermò l’imperatore come benefattore universale e consacrò il diritto dei cittadini a beneficiare dei frutti della conquista. Questa politica, associata alle attrezzature pubbliche e agli spettacoli, fu tuttavia criticata da alcuni autori. Giovenale vi vide il segno di una decadenza civica, riassunta dalla formula panem et circenses[19], secondo la quale il popolo avrebbe barattato le proprie responsabilità politiche con il pane e i giochi.
Sotto il regno di Aureliano, il sistema evolse: lo Stato cominciò a fornire pane cotto in panetterie pubbliche e vi aggiunse altre derrate, come l’olio d’oliva, il vino e la carne di maiale.

Il vino e le bevande
I Romani produssero e consumarono diversi tipi di vino, tra cui il passum, ottenuto da uva passa, e il mulsum, vino mescolato con miele. Accanto al vino propriamente detto, bevevano anche la posca, bevanda composta di acqua e aceto, comune negli ambienti modesti e militari. Il vino è per lo più consumato mescolato con acqua, fredda o calda, e raramente bevuto puro.
Il vino ordinario era abbondante e relativamente poco costoso, grazie all’importanza dei vigneti italiani e a una produzione provinciale ampiamente diffusa. Alcune regioni producevano tuttavia vini rinomati, ricercati per la loro qualità, tra cui i cru di Alba, di Cecubo e soprattutto di Falerno.
La città di Roma era rifornita principalmente dalla costa occidentale dell’Italia, dal sud della Gallia, dall’Hispania tarraconense e da Creta. Alessandria, seconda città dell’Impero, importava in particolare vino da Laodicea di Siria e dalla regione egea. Al dettaglio, il vino era venduto nelle taverne e in botteghe specializzate (vinaria), a brocca, da asporto o da consumare sul posto, con prezzi variabili secondo la qualità.
Il vino occupava anche un posto centrale nelle pratiche religiose. Libagioni erano offerte quotidianamente agli dei domestici prima dei pasti e, durante le visite funerarie, il vino veniva versato per i morti, talvolta mediante condotti predisposti nelle tombe.
Sebbene il vino fosse largamente apprezzato, l’ubriachezza era moralmente condannata. Bere vino puro (merum) era percepito come un comportamento eccessivo, spesso attribuito ai barbari. Gli autori romani associano così i Galli a un gusto smodato per il vino e al consumo di birra, bevanda considerata estranea agli usi romani.
Per Plinio, ciò è del tutto incomprensibile: mentre la natura fornisce l’acqua limpida di cui tutti gli altri animali si accontentano, l’uomo si affanna a produrre il vino, un veleno «che altera lo spirito dell’uomo e genera furore, responsabile di migliaia di crimini, e dotato di una tale dolcezza che molti ritengono non esista altra ricompensa della vita.»[20]
Bibliografia essenziale
- André, Jacques. L’alimentation et la cuisine à Rome. Paris : Les Belles Lettres, coll. « Études anciennes », 1961 (rééd. ultérieures).
- Badel, Christophe. « La nourriture romaine au quotidien ». In Histoire de l’alimentation. De la Préhistoire à nos jours, sous la direction de Florent Quellier, p. 265–285. Paris : Belin, 2012.
- Chantal, Laure de (éd.). À la table des Anciens. Guide de cuisine antique. Paris : Les Belles Lettres, coll. « Signets », t. 2, 2014.
- Tilloi-D’Ambrosi, Dimitri. L’Empire romain par le menu. Paris : Arkhê, 2017.
|
II · ROMA ALLA CONQUISTA DELLA DIVERSITÀ DEI SAPORI
|
III · DALLA PAPPINA AL BANCHETTO: L’EVOLUZIONE SPETTACOLARE DELLA CUCINA ROMANA (IN ARRIVO)
[1] Plauto, Mostellaria, 828 (pultiphagus) e Poenulus, 54 (Pultiphagonides). Questi due termini, formati a partire da puls (pappa) e dal greco φάγω (mangiare), designano in modo scherzoso i Romani nel teatro comico di Plauto.
[2] Plinio, Historia naturalis 18, 83-84.
[3] Apicio 5.1.1.
[4] Plinio, Historia naturalis 18, 124.
[5] VVirgilio, Georgiche I, 226–228 / Marziale, Epigrammi XIII, 9.
[6] Plinio, Historia naturalis 18, 68
[7] Musonio Rufo, Fragmenta XVIII.
[8] Historia Augusta, Didius Julianus 9, 5; Septimius Severus 19, 3; Maximinus Thrax 2, 5–6.
[9] Plauto, Captivi 848–850; Pseudolus 814–820; Mostellaria 945–948.
[10] Plinio, Historia naturalis 9, 66–67.
[11] Plinio, Historia naturalis 31.88
[12] Plinio, Historia naturalis 19, 39 ; 22, 99–101
[13] Plinio, Historia naturalis 12, 84–87
[14] Editto di Diocleziano, Edictum de pretiis rerum venalium, XX, 6.
[15] Plinio, Historia naturalis 11, 239–241.
[16] Columella, De re rustica VII, 8–9.
[17] Marziale, Epigrammi XIII, 31.
[18] CIL IV, 138.
[19] Giovenale, Satire X, 77–81.
[20] Plinio, Historia naturalis 14, 137: …quod hominis mentem mutet ac furorem gignat, milibus scelerum ob id editis, tanta dulcedine, ut magna pars non aliud vitae praemium intellegat.