Tra Roma e le api, una luna di miele

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I Romani non finivano mai di elogiare le api, apes in latino. Plinio il Vecchio, in particolare, si meravigliava delle prodezze di queste creature straordinarie: “Estraggono il miele, un nettare dolcissimo, leggero e salutare; producono favi e cera, utili in mille modi nella vita quotidiana; lavorano instancabilmente, realizzano opere, hanno una società organizzata, consigli specifici, leader comuni e, cosa ancora più sorprendente, hanno comportamenti diversi dagli altri.”[1] Secondo Plinio, il suono prodotto dalle api era dolce: “mormorano”[2].

Ricostruzione di oggetti di apicoltori gallo-romani presentati durante la mostra “Apis mellifera” al museo di Argentomagus (Indre) nel 2019. Foto: Lucius Gellius.

L’apicoltura non è però nata sulle rive del Tevere. Le prime testimonianze dell’allevamento delle api risalgono all’Antico Egitto, oltre 4500 anni fa. I bassorilievi del tempio di Abu Ghurab mostrano scene di apicoltura, dalla raccolta alla conservazione del miele. Questa conoscenza si è diffusa in tutte le antiche civiltà mediterranee.

Dolce e aspro ovunque

L’uso principale del miele era ovviamente culinario, come dolcificante, in un’epoca in cui lo zucchero raffinato non era ancora conosciuto. Era un ingrediente essenziale nella cucina antica, anche per la carne, dandole quel sapore agrodolce tipico della gastronomia romana. Al vino si aggiungeva miele per preparare il mulsum[3], un aperitivo molto apprezzato. Il miele era anche usato per conservare il cibo, in preparazioni che sono gli antenati di frutta candita e marmellate.

Esistevano già diverse qualità e tipi di miele, a seconda della regione, della stagione e dei fiori visitati dalle api, con una preferenza per il miele di timo, santoreggia, timo serpillo o maggiorana. Poiché gli alveari venivano solitamente affumicati per raccogliere il miele in sicurezza, il miele senza fumo, mel acapnon, era più prezioso. Ancora più apprezzato era il miele vergine che sgorgava naturalmente dai favi. Era considerato mel optimum.[4]

Ma il miele era anche parte della farmacopea antica: Dioscoride raccomandava di cuocerlo con sale gemma polverizzato per trattare ferite, dolori alle orecchie e altri disturbi. Galeno lo suggeriva per combattere l’infiammazione dei tessuti.[5]

Attenzione al miele che fa impazzire!

Dal medicinale al veleno, il passo è breve. All’inizio della nostra era, il geografo Strabone raccontava che tre coorti di Pompeo lo appresero a loro spese durante la guerra contro gli Heptakomètes in Asia Minore[6]. Gli indigeni conoscevano le proprietà allucinogene di un miele prodotto da api che visitavano piante contenenti alcaloidi tossici. Così, posizionarono alveari contenenti questo miele pazzo sul percorso dei loro nemici. Dopo aver consumato questo dono avvelenato, i soldati furono facilmente sconfitti dai loro avversari. Le api furono così all’origine del primo caso noto di guerra biologica…

Oltre al miele, gli alveari producevano anche cera, utilizzata in innumerevoli modi: per realizzare tavolette per scrivere in cornici di legno, per creare sculture con la tecnica della “cera persa”, o per pratiche magiche, con statuette modellate a immagine di una persona bersaglio di un rituale.

Regine scambiate per re

Sebbene la loro conoscenza delle api fosse notevole, i Romani commettevano alcuni errori.

Intaglio romano in corniola raffigurante un’ape, risalente al I-III secolo d.C. Provenienza: Siria. Conservazione: Yale University Art Gallery.

Ad esempio, credevano che le regine fossero re. Plinio cita anche alcuni autori secondo i quali, “se tutte le api venissero distrutte, potrebbero essere rigenerate nel ventre di un bue appena ucciso e coperto di letame”[7]. Questa credenza era chiaramente influenzata dalla figura di Aristeo, eroe della mitologia greca, figlio di Apollo e della ninfa Cyrene. Secondo il mito, Aristeos è l’inventore di molte tecniche agricole: fu il primo a cagliare il latte, a coltivare gli ulivi e ad allevare le api. Ma l’eroe aveva anche una passione. Si innamorò di Euridice, la fidanzata di Orfeo. Fuggendo, Euridice fu morsa mortalmente da un serpente. Per vendicarla, le sue compagne ninfe uccisero le api di Aristeo. Disperato, quest’ultimo sacrificò quattro tori e quattro giovenche.

Lasciamo al poeta Virgilio racontare l’epilogo di questa storia:[8]

“Allora, un prodigio improvviso e meraviglioso da raccontare, si vede, tra le viscere liquefatte dei buoi, api ronzare che riempiono i loro fianchi, e fuoriuscire dalle costole rotte, e formare immense nuvole, e poi radunarsi sulla cima di un albero e lasciare pendere il loro grappolo dai suoi rami flessibili.”

Un’arte e un’industria

Tuttavia, l’apicoltura non era solo una questione di mito e poesia. I Romani ne fecero una vera e propria industria per soddisfare una grande domanda di miele e cera. Per far fronte, Roma importava questa materia prima dalla Sardegna, dalla Corsica, dalla Grecia e dalla Spagna.

Numerosi testi descrivono in dettaglio le tecniche di allevamento e la cura delle api. Gli alveari dei ricchi proprietari erano affidati ad uno schiavo specializzato, l’apiarius. E il diritto romano stabiliva chiaramente i diritti degli apicoltori. Ad esempio, rimanevano proprietari di uno sciame che lasciava il loro alveare finché potevano vederlo e seguirlo, altrimenti diventava proprietà di chi lo trovava. Un modo come un altro per diffondere un po’ di dolcezza tra la popolazione.

[1] Plinio il Vecchio, Storia Naturale, Libro XI, 4, 1: mella contrahunt sucumque dulcissimum atque subtilissimum ac saluberrimum, favos confingunt et ceras mille ad usus vitae, laborem tolerant, opera conficiunt, rem publicam habent, consilia privatim quoque, at duces gregatim et, quod maxime mirum site, mores habent praeter cetera.

[2] Plinio usa la parola murmur, uris, n e  il verbo murmurare per descrivere il ronzio delle api, mentre bombus, i, m e bombilare/bombinare sono più specifici.

[3] Vedi: Le mulsum, vin de fête, de gloire et de guérison

[4] Jacques André, L’alimentation et la cuisine à Rome, Les Belles Lettres, Paris, 2018, pages 186-190.

[5] Viel Claude, Doré Jean-Christophe. Histoire et emplois du miel, de l’hydromel et des produits de la ruche. In: Revue d’histoire de la pharmacie, 91ᵉ année, n°337, 2003. pp. 7-20

[6] Strabone, Geografia, XII, 3, 18. Ma il “miele pazzo” era già conosciuto da Senofonte nel IV secolo a.C. Lo menziona nell’opera Spedizione di Ciro e ritiro dei diecimila, nel libro IV, capitolo VIII, 19-21. Anche Plinio aveva sentito parlare di questo miele tossico e lo menziona nella sua Storia Naturale nel libro XXII, capitolo 13, 45.

[7] Plinio il Vecchio, Storia Naturale, Libro XI, 23, 1: in totum vero amissas reparari ventribus bubulis recentibus cum fimo obrutis.

[8] Virgilio, Georgiche, Libro IV, 554-558: Hic vero subitum ac dictu mirabile monstrum / adspiciunt, liquefacta boum per viscera toto / stridere apes utero et ruptis effervere costis, / immensasque trahi nubes, iamque arbore summa / confluere et lentis uvam demittere ramis.

Prima pubblicazione agosto 2023. Riproduzione vietata.


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