Tradotto dal francese

Gli Ellenici le hanno inventate, i riformatori ginevrini del XVI secolo se ne sono ispirati. Tra gli uni e gli altri, i Romani, grandi teorici di questi principi, hanno avuto non poche difficoltà a farli rispettare. Ma non per mancanza di tentativi. Stiamo parlando delle leggi suntuarie, norme volte a limitare l’uso del lusso, soprattutto in campo alimentare.
A Roma, la prima di queste leggi compare verso la fine del III secolo a.C.. Conosciuta come Lex Oppia, ha come scopo principale quello di limitare l’uso di abiti e ornamenti ostentati da parte delle donne. Si inserisce nel duplice contesto della seconda guerra punica e dell’espansione territoriale della Repubblica. In realtà, l’obiettivo era quello di destinare il denaro allo sforzo bellico. Inoltre, poiché le conquiste romane avevano portato nuove ricchezze alla città, qualsiasi ostentazione eccessiva di ricchezza faceva temere all’élite disordini sociali.
Norme chiarite ed estese
Abolita nel 195 a.C. su pressione delle donne in seguito alla vittoria romana su Cartagine, la Lex Oppia fu sostituita da leggi suntuarie volte principalmente a regolare lo sfarzo alimentare: prezzi dei cibi, divieto di alcuni alimenti, limiti di spesa per i banchetti, numero di ospiti ammessi e eccezioni tollerate.
Dalla Lex Orchia del 182 a.C. alla seconda Lex Iulia promulgata da Augusto nel 18 a.C., si contano dieci leggi di questo tipo (vedi elenco sotto). Per molto tempo, questa successione di leggi è stata vista come una prova della incapacità romana a farle rispettare. Gli storici Jean Andreau e Marianne Coudry contestano questo punto di vista: “L’idea, spesso espressa, che la frequenza delle leggi sia dovuta al fatto che non furono applicate, non è corretta. Infatti, gli istigatori di queste leggi non si accontentano di ripetere gli stessi divieti: da una all’altra, questi vengono costantemente precisati o ampliati”.[1]
Fate come dico io…
Potremmo divertirci a sviscerare i dettagli di ciascuna di queste leggi, ma il lettore potrebbe annoiarsi.
Concentriamoci su due di loro: la Lex Cornelia, voluta dal dittatore Silla (81 a.C.), e la Lex Iulia, adottata per volontà di Giulio Cesare due anni prima della sua morte.

La prima fu introdotta in un momento in cui l’élite romana ostentava sempre più la propria ricchezza, seguendo la moda orientale. Si dice che Silla volesse ristabilire la moralità repubblicana. Ma, secondo Plutarco, il dittatore stesso non teneva in gran conto le leggi che aveva fatto approvare.
Così, durante una festa in onore di Ercole, Silla “diede al popolo magnifici banchetti. C’era una tale abbondanza, o meglio una tale profusione di cibo, che ogni giorno veniva gettata nel Tevere una quantità prodigiosa di carne, e veniva servito vino di quarant’anni e anche più vecchio”.
In questo periodo morì la moglie di Silla, Metella, e il dittatore, per piangere la sua morte, “non osservò le norme per la semplicità dei pasti, di cui era anche l’autore”.[2]
Certo, Marianne Coudry sottolinea che lo storico e moralista Plutarco non amava molto Silla e, come tale, era di parte. Tuttavia, osserva l’autrice, “questo nuovo tipo di critica, che divenne comune nelle polemiche contro le leggi suntuarie ma non è attestato in relazione ad altre leggi, consiste nel denunciare l’incoerenza dei loro ispiratori rivelando la discrepanza tra la norma che cercano di imporre e la loro stessa condotta: sottopone l’applicazione della legge a un requisito di esemplarità da parte del rogatore”.[3]
Noto per la sua probità e austerità, Giulio Cesare non dovette sopportare tali osservazioni. Anzi, gnoltre, gli viene riconosciuto il merito di essersi impegnato concretamente per far rispettare la sua legge suntuaria, non solo coinvolgendo il Senato nella sua stesura, ma anche, come sottolinea Marianne Coudry, “ricorrendo a mezzi energici e insoliti: guardie per controllare il mercato – un compito solitamente svolto dai consiglieri comunali – e littori e soldati per sequestrare i beni proibiti all’interno delle case”.[4]
Ma poi Cesare partì per combattere in Spagna e la sua legge fu dimenticata.
Da consumatori a produttori
Insomma, qualunque cosa si facesse, le élite romane trovavano sempre un modo per aggirare la legge. Marianne Coudry sottolinea che la ragione di ciò non era solo che qualsiasi restrizione ai piaceri della vita era disapprovata, ma che aveva anche una dimensione economica. Infatti, nel I secolo a.C., la classe dirigente romana non si accontentava più di consumare cibi di lusso, ma li produceva, in particolare nelle vasche delle ville al mare. Non aveva quindi alcun interesse a vedere limitata la propria ricchezza.
Secondo Marianne Coudry, “la storia della legislazione suntuaria è quindi un caso, unico a Roma, di un crescente divario, e infine di una rottura virtuale, tra la società e la legge”.[5]
Fu proprio questa osservazione che spinse Tiberio a non ripetere l’esperimento. In un discorso riportato da Tacito, l’imperatore esclamò: “Non ignoro che nelle feste e nei circoli si leva un grido generale contro questi abusi e se ne chiede la soppressione. Ma fate una legge, imponete delle pene, e gli stessi censori grideranno che si sta mettendo sottosopra lo Stato, che si sta preparando la rovina delle più grandi famiglie, che non rimarrà più nessuno che sia innocente”.[6] Ritenendo che solo un comportamento dignitoso e adeguato avrebbe risolto il problema, sfidò i senatori:
“Se uno dei magistrati ci promette abilità e vigore sufficienti per opporsi al torrente, lo lodo per il suo zelo, e confesso che mi solleva da una parte del mio lavoro. Ma se, volendo prendersi il merito di accusare il vizio, si sollevano odi che lasceranno tutto il peso a me, credete, padri coscritti, che io sono avido di inimicizia come nessuno. Per la Repubblica ho affrontato inimicizie piuttosto crudeli e, troppo spesso, del tutto immeritate; ma quelle che sarebbero inutili, e dalle quali né io né voi trarremmo alcun vantaggio, è giusto che mi vengano risparmiate.”[7]
Elenco delle dieci leggi suntuarie sul cibo

- Lex Orchia (182 a.C. circa): limitava il numero di invitati a un banchetto.
- Lex Fannia (161 a.C.): limitava il costo di un banchetto a 10 Assi per ospite, o 100 Assi in determinati giorni.
- Lex Didia (143 a.C.): ripetizione della precedente.
- Lex Aemilia (115 a.C.): ripete le precedenti.
- Lex Licinia (97 a.C.): fissa le spese per un banchetto nuziale a 200 sesterzi; stabilisce un peso massimo per carni e salumi.
- Lex Cornelia (81 a.C.): 300 sesterzi al massimo in determinati giorni, 30 sesterzi altrimenti.
- Lex Aemilia (78 a.C.): regolava il tipo di piatti.
- Lex Antia (68 a.C.): limita le spese, vieta ai magistrati in carica e ai candidati alle elezioni di partecipare ai banchetti.
- Lex Iulia (46 a.C.): vietava i prodotti ritirati dai mercati.
- Lex Iulia (18 a.C.): spesa massima di 200 sesterzi, 300 in alcuni giorni e 1000 per i matrimoni.
Fonte: Wikipedia, articolo L’alimentazione nell’antica Roma.
[1] Le luxe et les lois somptuaires dans la Rome antique, sous la direction de Jean Andreau et Marianne Coudry, Présentation, in Mélanges de l’Ecole française de Rome, Aintiquité 128-1 | 2016.
[2] Plutarco, Vita di Silla, XXXV: ᾿Αποθύων δὲ τῆς οὐσίας ἁπάσης ὁ Σύλλας τῷ ῾Ηρακλεῖ δεκάτην ἑστιάσεις ἐποιεῖτο τῷ δήμῳ πολυτελεῖς· καὶ τοσοῦτον περιττὴ ἦν ἡ παρασκευὴ τῆς χρείας ὥστε παμπληθῆ καθ’ ἑκάστην ἡμέραν εἰς τὸν ποταμὸν ὄψα ῥιπτεῖσθαι, πίνεσθαι δὲ οἶνον ἐτῶν τεσσαράκοντα καὶ παλαιότερον. (…) παρέβαινε δὲ καὶ τὰ περὶ τῆς εὐτελείας τῶν δείπνων ὑπ’ αὐτοῦ τεταγμένα, πότοις καὶ συνδείπνοις τρυφὰς καὶ βωμολοχίας ἔχουσι παρηγορῶν τὸ πένθος.
[3] Marianne Coudry, Loi et société: la singularité des lois somptuaires de Rome, in Cahiers du Centre Gustave Glotz, 2004.
[4] Op. Cit.
[5] Op. Cit
[6] Tacito, Annali, libro terzo, LIV: Nec ignoro in conviviis et circulis incusari ista et modum posci: set si quis legem sanciat, poenas indicat, idem illi civitatem verti, splendidissimo cuique exitium parari, neminem criminis expertem clamitabunt.
[7] Op. Cit.: Aut si quis ex magistratibus tantam industriam ac severitatem pollicetur ut ire obviam queat, hunc ego et laudo et exonerari laborum meorum partem fateor: sin accusare vitia volunt, dein, cum gloriam eius rei adepti sunt, simultates faciunt ac mihi relinquunt, credite, patres conscripti, me quoque non esse offensionum avidum; quas cum gravis et plerumque iniquas pro re publica suscipiam, inanis et inritas neque mihi aut vobis usui futuras iure deprecor.
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