Leggenda del ‘vomitorium’, realtà della denuncia

Les Romains de la décadence  (particolare), dipinto di Thomas Couture, 1847 (Museo d’Orsay).

Quando sentite la parola vomitorium, cosa vi viene in mente? Una stanza adiacente alla sala da pranzo dove i Romani sazi potessero evacuare il sovrappiù per riempirsi la pancia?

Falso: non è mai esistito. Il termine compare solo nel quinto secolo negli scritti di Macrobio, scrittore e filosofo, per indicare (al plurale: vomitoria) gli ampi corridoi che permettevano agli spettatori di accedere ai propri posti nei teatri e negli anfiteatri romani[i] . Alla fine dello spettacolo, i vomitoria “vomitavano” la folla…

Ma allora da dove nasce l’idea diffusa della “camera del vomito”? Dopo la fine dell’Impero Romano…

Decadenza romana

Dopo il Rinascimento, il quale è stato affascinato dalla grandezza greco-romana, è emersa gradualmente la domanda sul perché della fine di una civiltà capace di tante meraviglie. Nel 1734, lo scrittore e filosofo francese Montesquieu pubblicò Della grandezza dei romani e della loro decadenza, la prima opera a trattare l’argomento. A lui seguì, circa cinquant’anni dopo, l’inglese Edward Gibbon. La sua somma Declino e caduta dell’Impero romano, un’opera in tredici volumi, è ancora oggi citata come riferimento. Gibbon attribuisce la caduta di Roma principalmente alla corruzione della morale e delle leggi, nonché alla perdita del senso civico e dello spirito militare, minati dal cristianesimo[ii]. Da quel momento in poi, l’idea di un crollo legato ad ogni tipo di eccesso continuerà a crescere. Nel 1847, il francese Thomas Couture dipinse “I romani della decadenza”, un capolavoro monumentale che lasciò un’impronta indelebile. E nel 1871, nel suo resoconto di un Natale apparentemente doloroso in Inghilterra, il giornalista e politico francese Felix Pyat descrisse il pasto festivo come “un’orgia rozza, pagana, mostruosa – una festa romana, in cui non manca il vomitorium“. Sembra che questa sia la prima volta che la parola viene usata impropriamente per indicare un luogo per vomitare. Appare poi nel romanzo comico di Aldous Huxley del 1923, “Circolo vizioso(Antic Hay).

Sebbene nessuna stanza di una casa romana fosse mai stata riservata a questa pratica, il vomito indotto non è assente dai testi latini.

Si trova come prescrizione medica in Celso, un medico dell’inizio della nostra era: “Esso [il vomito] è necessario per tutti coloro che provano brividi e tremori prima della febbre, per le persone che soffrono di colera, per coloro il cui delirio è accompagnato da una certa ilarità, e infine per gli epilettici”.[iii]

Ma al di fuori di queste circostanze accettabili, si tratta soprattutto di denunciare la totale mancanza di autocontrollo e di senso morale di chi vomita.

Una piuma nella gola

Tuttavia, negli estratti giunti fino a noi dal “Satyricon”, la satira sociale di Petronio, troviamo tutti gli eccessi immaginabili, ma curiosamente nessuna vomitio. Dobbiamo guardare a Cicerone, che attacca “i dissoluti che vomitano sulla tavola”[iv] , e al severo Seneca:

“Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare; e questi cibi, che hanno cercato su tutta la terra, disdegnano di digerire”.[v]

Quanto a Svetonio, nella sua La Vita dei dodici Cesari, usa la critica al vomito come arma politica. Se l’imperatore non è in grado di governare i suoi impulsi e il suo stomaco, come può guidare l’impero? Egli contrappone la frugalità di Augusto, che, dice, “mangiava poco e si accontentava di cibi comuni”[vi], alla golosità di Claudio e Vitellio[vii] . Svetonio racconta che il primo “non lasciava mai un pasto senza caricarsi di cibo e vino”. Poi si sdraiava sulla schiena con la bocca spalancata e, mentre dormiva, gli veniva infilata una piuma in gola per liberare lo stomaco”[viii] .

Se tali scrittori denunciano questi comportamenti, reali o immaginari, è per screditare i loro autori. La morale romana comune è infatti in totale contrapposizione rispetto al banchetto sfrenato, come indicano ad esempio le iscrizioni che salutavano gli ospiti sulle pareti della sala da pranzo di una casa di Pompei:

“Evita le discussioni litigiose se puoi, altrimenti esci e rientra sotto la tua pelle / Rinuncia agli atteggiamenti lascivi e a gettare gli occhi sulla moglie di un altro uomo”. Che la modestia sia sempre nella tua bocca / Che uno schiavo ti lavi i piedi con l’acqua e li asciughi quando sono bagnati. Lasciate che copra il letto del tavolo con un lenzuolo. Fate attenzione a non sporcare i nostri panni di lino”.[ix]

L’invenzione del vomitorium come camera per il vomito nel XIX° secolo si colloca appunto nello stesso approccio di Cicerone, Seneca o Svetonio: castigare gli eccessi ritenuti decadenti dai potenti del loro tempo.

[i] Flavio Macrobio Ambrosio Teodosio, Saturnalia, VI, 4, 3: unde et nunc vomitoria in spectaculis dicimus, unde homines glomeratim ingredientes in sedilia se fundunt.

[ii]  Edward Gibbon, Declino e caduta dell’Impero romano, 1776-1789. Cfr. Volume 7, Osservazioni generali sulla caduta dell’Impero romano in Occidente: “Il clero predicava con successo la dottrina della pazienza e della pusillanimità. Le virtù attive che sostengono la società sono state scoraggiate e gli ultimi resti dello spirito militare sono stati sepolti nei chiostri”.

[iii] Aulo Cornelio Celso, De medicina, II, 13: Ergo omnibus, qui ante febres horrore et tremore vexantur, omnibus, qui cholera laborant, omnibus etiam cum quadam hilaritate insanientibus, et comitiali quoque morbo oppressis necessarius est.

[iv] Marco Tullio Cicerone, De finibus, 2, 23: Noli enim mihi fingere asotos, ut soletis, qui in mensam vomant, et qui de conviviis auferantur crudique postridie se rursus ingurgitent.

[v] Lucio Anneo Seneca, Consolatio ad Helviam matrem, X.3: Vomunt ut edant, edunt ut vomant, et epulas quas toto orbe conquirunt nec concoquere dignantur.

[vi] Caio Svetonio Tranquillo, Vitae Caesarum, Vita divi Augusti, LXXVI : Cibi-nam ne haec quidem omiserim-minimi erat atque vulgaris fere.

[vii] Caio Svetonio Tranquillo, Vitae Caesarum, Vita Vetelii, XIII.

[viii] Caio Svetonio Tranquillo, Vitae Caesarum, Vita divi Claudi, XXXIII: Nec temere umquam triclinio abscessit nisi distentus ac madens, et ut statim supino ac per somnum hianti pinna in os inderetur ad exonerandum stomachum.

[ix] C.I.L. IV,7698 : (Utere blandit)iis, odiosaque iurgia differ. Si potes, aut gressus ad tua tecta refer. / Lascivos voltus et blandos aufer ocellos. Coniuge ab alterius: sit tibi in ore pudor / Abluat unda pedes, puer et detergeat udos / Mappa torum velet, lintea nostra cave.

Fonti


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