L’irresistibile ascensione del cuoco Eros

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CIL VI 9261, thermes de Dioclétien, inv. n° 30570
Fig.1.: CIL VI 9261, Terme di Diocleziano, inv. n° 30570

Nell’antica Roma, il cuoco svolgeva un ruolo centrale ma poco riconosciuto, Gli storici e i commentatori dell’antica Roma erano molto interessati alla preparazione dei piatti, ma molto poco a coloro che li realizzavano. Probabilmente solo uomini. Inoltre, in latino, la parola coquus o cocus, che designa il cuoco, è maschile: la forma femminile è –con una sola eccezione[1]– inesistente: niente coca dunque. Le donne erano ovviamente responsabili della casa, ma quando l’attività divenne professionale, gli uomini presero il sopravvento. Non c’era nulla di affascinante in questo! I cuochi erano schiavi, al servizio delle famiglie ricche.

CIL VI 6274, Musée National Romain (inv. n° 30812)
Fig. 2: CIL VI 6274, Museo Nazionale Romano (inv. n° 30812)

Gli storici ritengono che lo sviluppo della professione di cuoco sia avvenuto intorno al III e II secolo a.C.. A quel tempo, le élites romane stavano diventando più ricche che mai. Lo stile di vita orientale, con i suoi banchetti e i suoi piaceri, esercitava su di loro una notevole attrazione. Le abitudini sobrie e austere che caratterizzavano l’etica romana lasciarono gradualmente il posto a stili di vita aristocratici, che furono criticati da molti autori, tra i quali il severo Seneca.

In tale contesto, sembrava ovvio che qualsiasi famiglia romana che si rispettasse (e avesse i mezzi per farlo) doveva avere almeno un cuoco tra i suoi schiavi. Quest’ultimo, inoltre, poteva progressivamente assumere una posizione a capo di una brigata specializzata, comprendente, in particolare, un carptor (tagliatore di carne), un libarius (pasticciere) e persino un sublingio (marmiton – letteralmente “leccatore” di piatti…).

Nel I secolo a.C., lo storico Tito Livio testimonia l’evoluzione in corso:

“Fu allora che il cuoco, che tra gli antichi era ritenuto il più basso dei beni, sia per il suo valore che per il suo uso, cominciò a essere apprezzato, e quella che prima era solo una funzione cominciò a essere considerata un’arte. Eppure tutte queste novità, che allora erano al centro dell’attenzione, erano solo i semi del lusso a venire.”[2]

CIL VI 6275, Museo Nazionale Romano (inv. n° 72490)
Fig.3: CIL VI 6275, Museo Nazionale Romano (inv. n° 72490)

Detto questo, passiamo alla storia di Eros, che esercitava il mestiere di cuoco nella Roma del I secolo. Conosciamo alcuni frammenti della sua storia, perché, da uomo previdente qaule fosse, fece preparare almeno tre lapidi nel corso della sua vita. Questo non dimostra una particolare angoscia, ma semplicemente la preoccupazione di fare uso di quella che riflettesse la migliore condizione sociale raggiunta.

Prima pietra, primo stadio: Eros cocus / Posidippi ser(vus)/ hic situs est (Fig.1). In questa fase, Eros è dunque uno schiavo (servus) cuoco (cocus) al servizio di un certo Posidippo.

La seconda fase, che conosciamo su una pietra andata perduta, ma che compare nel VI volume del Corpus delle iscrizioni latine pubblicato nel 1876: Hìc ossa sita sunt / Fausti Eronis / vicari supra / cocos. Eros è ora chef, supra cocos, una formula di cui non esistono altre occorrenze in epigrafia.

Veniamo a saper in seguito (Fig. 2) che Eros ha lasciato la funzione di cuoco per assumere quella di dispensatore, intendente, amministratore o tesoriere. Questa rimane una funzione servile, ma senza dubbio la più elevata, poiché comporta la gestione dei beni del padrone.

Lo conferma una lapide che non è destinata a Eros, ma a Faustus, designato come suo carissimo amico (amicus amico) e sostituto (vicarius) nella sua funzione di dispensatore (Fig.3)..

CIL VI 6535, Museo Nazionale Romano, inv. n° 33431
Fig.4: CIL VI 6535, Museo Nazionale Romano, inv. n° 33431

Ultima pietra, ultima tappa della vita di Eros: T(itus) Statilius/ Posidippi l(ibertus) Eros. Il testo è sintetico, ma decisivo. Indica che il suo padrone ha finalmente liberato Eros. Questo dimostra che nell’antica Roma l’arte culinaria può portare a tutto, anche alla libertà.

[1] La forma coqua si trova una sola volta, in Plauto (Poen. 248)..

[2] Livio, 39, 6, 9: Tum coquus, uilissimum antiquis mancipium et aestimatione et usu, in pretio esse, et quod ministerium fuerat, ars haberi coepta. Vix tamen illa quae tum conspiciebantur semina erant futurae luxuriae.

Fonti:


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