Tradotto dal francese
Un anno fa la morra è stata consacrata patrimonio immateriale de l’umanità dall’UNESCO. Questo fatto può essere consacrato come una rivincita per un gioco che ne ha viste di tutti i colori.
Le origini del gioco si perdono nella notte dei tempi. Sembra che sia stato rappresentato in alcune tombe egizie già nel Medio Regno (circa 4.000 anni fa). Se ne trovano tracce anche nell’antica Grecia, anche se il gioco non sembra essere stato molto importante. La situazione era ben diversa in epoca romana, dove la loro digitis micare[1], letteralmente “agitare le dita”, era di uso comune.
Era un gioco ricreativo, ma anche un modo per tirare a sorte, un po come il bim bum bam dei bambini.
Per i non adetti, vale la pena riassumerne il principio: è molto semplice, due persone si fronteggiano a pugno chiuso. Contemporaneamente, allungano un certo numero di dita gridando un numero compreso tra zero e dieci[2]. Vince chi indovina il numero di dita tese dai due protagonisti. Naturalmente, le regole variano a seconda del tempo e del luogo.
Il Gioco d’azzardo, certo, ma non solo. La mica richiede velocità, presenza mentale e senso della strategia. In base a ciò che si conosce della psicologia dell’altro giocatore e a ciò che ha giocato nel turno precedente, si può cercare di indovinare il numero di dita che appariranno. Allo stesso modo, si può cercare di superare le previsioni dell’avversario.
Doppio o niente
Cicerone ne dà un esempio nel trattato Sui doveri (De officiis). Prendiamo il caso di due naufraghi che lottano per sopravvivere in acqua. Se c’è solo una tavola a cui aggrapparsi, chi dei due dovrebbe cederla all’altro? Quello la cui vita è più importante per sé o per la Repubblica”, risponde Cicerone. Sì, ma se c’è un pareggio? “Allora non ci sarà lotta, ma, come se si trattasse di un sorteggio o di un gioco della mica, il perdente cederà il posto all’altro”.[3]
Nella sua opera sulla divinazione, Cicerone approfondisce cosa intende per sorteggio:
“Che cos’è dunque consultare la sorte? È più o meno la stessa cosa che giocare a dadi o a fanti, cioè giochi in cui non è la ragione o il calcolo ponderato a portare alla vittoria, ma l’audacia temeraria, ben servita dal caso”.[4]
Come abbiamo visto, la posta in gioco poteva essere considerevole. Svetonio ne dà un esempio. Per illustrare la crudeltà dell’imperatore Augusto, racconta che:
“(…) un padre e un figlio che lo imploravano di concedere loro la vita, egli [Augusto] ordinò che giocassero a micare [che avrebbero avuto la vita salva] o che combattessero insieme, promettendo pietà al vincitore”.[5]
Quando la posta in gioco è così alta, i giocatori possono essere tentati di barare. Ecco perché il gioco si basa anche sulla fiducia reciproca tra i protagonisti, al punto da diventarne il simbolo proverbiale, in particolare in Cicerone e Petronio:
“(…) Ma corretto, solido, amico dei suoi amici; avremmo giocato a micare con lui al buio”.[6]
Poter giocare alla cieca con la certezza che l’avversario non barerà: è il massimo della fiducia!
Nel corso dei secoli, il gioco romano della morra (o mourre in francese) si diffuse dall’Italia meridionale alle regioni franco-provenzali e occitane. Il gioco era spesso vietato, poiché comportava scommesse e provocava risse. In Italia è stato vietato nel 1931, finché non è stato reintrodotto nel 2022. E nel 2023, la consacrazione. Che giocata!
[1] Il sostantivo micatio significa anche il gioco, ma non è adoperato dagli autori latini che gli preferiscono il solo verbo micare senza il complemento digitis.
[2] Romani avevano un mod particolare di rappresentare i numeri con le dita. Ve lo spiegheremo in un prossimo articolo.
[3] Cicerone, Sui doveri, III, 23 (90): Nullum erit certamen, sed quasi sorte aut micando victus alteri cedet alter.
[4] Cicerone, Della Divinazione, II, 41: (…) Quid enim sors est? Idem prope modum quod micare, quod talos iacere, quod tesseras, quibus in rebus temeritas et casus, non ratio nec consilium valet.
[5] Svetonio, Vite dei dodici cesari, Augusto, XIII, 2, 13: (…) patrem et filium, pro uita rogantis sortiri uel micare iussisse, ut alterutri concederetur, ac spectasse utrumque morientem, cum patre, quia se optulerat (…).
[6] Petronio, Satiricon, 44 (XLIV): (…) Sed rectus, sed certus, amicus amico, cum quo audacter posses in tenebris micare.
Cicéron, Sui doveri, III, 19 (77): (…) Cum enim fidem alicuius bonitatemque laudant, dignum esse dicunt, qui cum in tenebris mices. (“(…) per lodare la lealtà e la probità di qualcuno, essi (i filosofi) dicono che si potrebbe giocare a micare con lui al buio”.).
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