«Io avrei un vivissimo desiderio di sapere se tu pensi che i fantasmi esistano davvero ed abbiano un loro proprio aspetto ed una qualche capacità di azione, ovvero che, pure vanità inconsistenti, ricevano una figura soltanto dalla nostra paura.»[1].
Questa domanda assillava Plinio il Giovane, una delle menti più colte del suo tempo. Suo zio e padre adottivo è l’autore di una monumentale enciclopedia. Muore addirittura perché ha voluto studiare troppo da vicino l’eruzione del Vesuvio che ha distrutto Pompei nell’ottobre 79. Il giovane Plinio, circa diciasettenne, è testimone da lontano della catastrofe. La descriverà in seguito così accuratamente in una lettera a Tacito che i vulcanologi gliene sono grati ancora oggi. Ma torniamo alla sua preoccupazione del momento: gli spettri.
«Anche se, attenendoti al tuo metodo solito, metterai avanti gli argomenti che ognuna delle due tesi contrapposte possiede, calcane però in modo speciale quelli di una delle due, per non lasciarmi titubante e incerto, perché il motivo per cui ti consulto è proprio quello di troncare tutte le mie perplessità.»[2]
Su chi può contare Plinio il Giovane per decidere la questione? Un altro uomo illustre, di circa vent’anni più anziano di lui: Lucio Licinio Sura. È nato a Taranco, l’odierna Tarragona, in Spagna. Era un homo novus –oggi diremmo un self-made man– che divenne un ricco senatore, amico e consigliere dell’imperatore Traiano, protettore del poeta Marziale.
Per alimentare la sua riflessione, Plinio fornisce a Sura tre storie di fantasmi.
Il primo riguarda un certo Marcus Rufius. «Verso il cadere del giorno passeggiava sotto un portico: ed ecco che gli si presenta una figura di donna che per maestà e bellezza superava le possibilità umane. Vedendolo tutto spaventato, gli disse di essere l’Africa e che veniva a preannunziargli il futuro.»[3] L’apparizione annuncia a Lucio che ricoprirà grandi cariche a Roma, tornerà a governare la provincia d’Africa e lì morirà. Plinio ritiene che la predizione si sia avverata, ma il personaggio ha lasciato poche altre tracce. È quindi difficile formarsi un’opinione. Inoltre, l’apparizione non è un vero e proprio fantasma, ma l’incarnazione di una regione misteriosa per i Romani. Comunque, passiamo al secondo caso.
La storia si svolge ad Atene e ha come protagonista il filosofo stoico Atenodoro di Tarso. Si svolge ben un secolo prima del racconto di Plinio. C’era una grande e bella casa in città. Ma non appena scese la notte, si udì un rumore di catene, seguito dall’apparizione di un orrendo spettro, dalle sembianze di un vecchio irsuto. I successivi occupanti si erano tutti ammalati di terrore o erano fuggiti. Gli agenti immobiliari dell’epoca, tuttavia, non si arresero. La casa era pubblicizzata come in vendita a un prezzo molto basso. Il filosofo colse al volo l’occasione.
«Sul far della sera, dà ordine che gli si allestisca la brandina di lavoro nei locali della casa adiacenti all’ingresso e si fa portare tavolette, stilo e lampada. (…) All’inizio vi regna il silenzio della notte come in tutti gli altri posti, poi ecco uno scuotere di ferri ed un muovere di catene: egli non alza gli occhi, non desiste dallo scrivere, fa appello a tutta la sua forza d’animo e cerca con essa di sbarrare la via a quanto giunge alle sue orecchie. Allora il frastuono si fa più insistente, si avvicina sempre più; ormai dà l’impressione di risuonare sulla soglia, poi addirittura dentro la soglia. Si volta indietro a guardare, vede e riconosce la figura di cui gli avevano parlato. Era ferma e in piedi e faceva segno col dito nell’atteggiamento di chi chiama. Atenodoro in risposta le indica con la mano che aspetti un poco e di nuovo si curva a scrivere sulle sue tavolette cerate.»[4]
Questo è il senso dell’essere stoici. Poiché il fantasma insiste, il filosofo lo segue finalmente nel giardino. Lì, nel luogo indicato dal fantasma, vengono scoperte ossa e catene mentre si scava. Atenodoro fa seppellire questi resti in un luogo pubblico: il problema viene risolto, la casa non è più infestata.
Ebbene, scrive Plinio al suo interlocutore, queste storie sono di seconda mano. Il terzo è reale. Segue la storia di uno dei suoi liberti, Marco, dotato di una «discreta cultura», dice. Quindi non è il primo credulone che si presenta e questo è ciò che gli è accaduto:
«Egli una volta riposava nel medesimo letto con il fratello minore. Quest’ultimo ebbe l’impressione di vedere un individuo sedersi sul letto, avvicinargli al capo delle forbici e tagliargli anche i capelli sul culmine della testa. Quando spuntò il giorno si trovò che egli era schiomato attorno al culmine della testa e che i capelli erano là per terra.»[5]
Pochi giorni dopo, lo spettro in versione Figaro colpisce ancora. Plinio ritiene che questi eventi non abbiano avuto un seguito, ma che abbiamo come significato un’avvertenza di un pericolo scongiurato, dato che era abitudine degli accusati lasciarsi crescere i capelli. Ora sembra che l’imperatore Domiziano avesse Plinio nel mirino, ma non visse abbastanza per minacciarlo…
Ecco i tre elementi forniti. Tre storie di spettri piuttosto innocui e bendisposti che si svolgono nell’arco di oltre un secolo: c’è da ammettere che sono pochi per determinarci!
A maggior ragione che la risposta di Sura non ci è pervenuta. Non conosceremo mai il suo punto di vista… a meno che il suo fantasma non ce lo riveli.
Fonte
Di Plinio il Giovane, Epistularum, libri VII 27, in Opere di Plinio Cecilio Secondo, a cura di F. Trisoglio, vol. I, Torino 1973, pp. 748-755. Testo in latino ed in italiano.
[1]Igitur perquam velim scire, esse phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes an inania et vana ex metu nostro imaginem accipere.
[2]Licet etiam utramque in partem — ut soles — disputes, ex altera tamen fortius, ne me suspensum incertumque dimittas, cum mihi consulendi causa fuerit, ut dubitare desinerem.
[3]Inclinato die spatiabatur in porticu; offertur ei mulieris figura humana grandior pulchriorque. Perterrito Africam se futurorum praenuntiam dixit.
[4]Ubi coepit advesperascere, iubet sterni sibi in prima domus parte, poscit pugillares stilum lumen (…) Initio, quale ubique, silentium noctis; dein concuti ferrum, vincula moveri. Ille non tollere oculos, non remittere stilum, sed offirmare animum auribusque praetendere. Tum crebrescere fragor, adventare et iam ut in limine, iam ut intra limen audiri. Respicit, videt agnoscitque narratam sibi effigiem. Stabat innuebatque digito similis vocanti. Hic contra ut paulum exspectaret manu significat rursusque ceris et stilo incumbit.
[5]Est libertus mihi non illitteratus. Cum hoc minor frater eodem lecto quiescebat. Is visus est sibi cernere quendam in toro residentem, admoventemque capiti suo cultros, atque etiam ex ipso vertice amputantem capillos.
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