Tradotto dal francese
Al centro del mondo mediterraneo antico, tra il VI e il IV secolo prima della nostra era, i Greci elaborarono un’arte di vivere alimentare che risuona ancora nei piatti contemporanei. Lungi dall’immagine stereotipata di un’austerità spartana generalizzata, la cucina greca classica rivela una complessità insospettata, frutto di una geografia capricciosa e di un pensiero profondo sul posto dell’uomo nel cosmo.

«Dove crescono il grano, la vite e l’ulivo»[1]
Con queste parole i giovani efebi ateniesi definivano la loro patria al termine della formazione militare. Questa triade, ben più di una semplice enumerazione di prodotti agricoli, costituiva l’identità stessa della civiltà greca. Pane, olio d’oliva e vino non erano semplici derrate, ma le manifestazioni di una technè (τέχνη), quell’arte che distingue l’uomo civilizzato dal barbaro. Ciascuno dei tre elementi necessita di un lavoro, di una trasformazione della natura bruta, e gode della protezione di una divinità maggiore: Demetra per i cereali, Atena per l’ulivo, Dioniso per la vite. Ermes, protettore delle greggi, non aveva la loro statura.
L’alimentazione non definiva soltanto delle abitudini, ma un’identità: mangiare pane, bere vino mescolato, usare olio d’oliva equivaleva a riconoscersi come Greco, in opposizione ai Barbari, percepiti come bevitori di latte, mangiatori di carne o consumatori di vino puro.
L’ulivo, dono di Atena
L’ulivo incarnava da solo la perennità greca. Ad Atene, la leggenda voleva che Atena l’avesse piantato sull’Acropoli, ottenendo così contro Poseidone il diritto di diventare la divinità eponima della città[2]. Albero di una longevità eccezionale, capace di rigenerarsi attraverso i suoi polloni, l’ulivo poteva vivere diversi secoli. Cominciava tuttavia a produrre solo al termine di una lunga attesa, intorno ai quindici anni, e raggiungeva la sua piena maturità solo dopo diversi decenni. L’olivicoltura rappresentava un lavoro paziente: la terra veniva lavorata due volte l’anno, concimata, gli alberi regolarmente curati e potati ogni sette od otto anni. In ricompensa, l’olio scorreva a fiumi – o quasi.
I vincitori delle Panatenee, grandi feste civiche ateniesi, ricevevano anfore colme di olio degli ulivi sacri: 140 anfore per il primo della corsa dei carri, ciascuna contenente una quarantina di litri, ossia circa 5.600 litri in totale, in altre parole una fortuna considerevole[3].
Ma l’olio non serviva soltanto per l’alimentazione. Permeava tutti gli aspetti della vita greca: ginnastica, medicina, profumeria, illuminazione, artigianato. Gli atleti se ne cospargevano il corpo prima dell’esercizio, poi raschiavano con lo strigile o stlegis (στλεγγίς) questa miscela di olio, sudore e polvere che i gestori delle palestre rivendevano come rimedio contro i reumatismi[4]. Nelle lucerne, illuminava modestamente le case. Nei santuari, lubrificava l’avorio delle statue criselefantine. Persino i noccioli mescolati alla polpa essiccata, le sanse, servivano da combustibile ai vasai.
Mangiatori di sitos
I cereali costituivano il cuore stesso dell’alimentazione. I Greci si definivano come «mangiatori di sitos» (σῑτοφάγοι), termine generico che designava tutte le preparazioni cerealicole (sitos – σῖτος). Una chenice al giorno – circa 900 grammi –, ecco la razione del lavoratore. Il doppio per l’orzo, meno nutriente. Ma parlare unicamente di pane sarebbe ingannevole: i Greci consumavano i loro cereali sotto molteplici forme. La maza (μᾶζα), focaccia d’orzo impastata, rivaleggiava con il pane lievitato di frumento cotto al forno. Esiodo evocava già questo sogno del contadino sfinito dalla canicola:
«Possa io avere l’ombra di una roccia, del vino di Biblo, una focaccia ben gonfia e del latte di capre, con la carne di una giovenca o di agnelli.»[5]
Più che un alimento fra gli altri, il sitos costituiva il vero fondamento della sicurezza alimentare: finché le riserve cerealicole erano assicurate, gli accompagnamenti potevano variare, ridursi o sostituirsi senza rimettere in discussione l’equilibrio vitale.

Il vino tagliato, una norma morale
l vino, terzo pilastro della triade, era la bevanda per eccellenza. Omero menzionava già il Pramnio, i vini di Pedaso, di Arnè[6]. Nell’Odissea, Ulisse si arma del vino d’Ismaro per ubriacare il Ciclope Polifemo[7]. All’epoca classica, ogni regione aveva i suoi vini pregiati: i bianchi di Chio, i corposi di Santorini, i rossi dell’Attica. Ma non si beveva mai il vino puro – ciò passava per barbaro. Il rituale del symposion (συμπόσιον) imponeva di tagliarlo con acqua, spesso in proporzioni di un terzo di vino per due terzi d’acqua, profumato di aromi, di resina, talvolta di miele.
Il vino mescolato con acqua non era solo un uso conviviale: incarnava una norma morale, quella della misura e del controllo di sé, mentre il vino bevuto puro diventava il segno di un’alterità pericolosa, di un’ubriachezza barbara o tirannica.
L’accesso a un’acqua di qualità non era tuttavia scontato: cisterne private, fontane pubbliche e recupero delle acque piovane disegnavano una geografia sociale dell’acqua, strettamente sorvegliata dalle città e rivelatrice delle disuguaglianze urbane.
Il quotidiano della tavola
La giornata alimentare greca si organizzava in diversi momenti. Al mattino, l’akratisma (ἀκράτισμα), frugale, si limitava il più delle volte a del pane inzuppato nel vino. Il pasto di mezzogiorno, l’ariston (ἄριστον), si riduceva spesso a poca cosa. Aristofane ne evocava la semplicità con nostalgia nell’Assemblea delle donne:
«Ciascuno veniva, portando in un’otre di che bere, con un tozzo di pane secco, due cipolle e tre o quattro olive.»[8]
Il deipnon (δεῖπνον), pasto della sera, costituiva il momento principale della giornata. Ci si sedeva su panche o sgabelli – solo i ricchi disponevano di letti da banchetto. Il sitos troneggiava al centro: pane, maza, o pappa di cereali. Intorno gravitavano gli opsa (pl. di ὄψον), questi accompagnamenti – verdure, formaggi, pesci, carni – consumati nella vita quotidiana.
Questo equilibrio apparente dissimulava tuttavia una fragilità strutturale: per una larga parte della popolazione, la carestia non era un evento eccezionale ma un rischio permanente, iscritto nella dipendenza dai raccolti, dagli scambi e dalle variazioni climatiche.
La carne, così fortemente associata al sacrificio, non era per questo assente dall’alimentazione ordinaria. Gli scavi archeozoologici recenti sconvolgono l’immagine di una Grecia vegetariana per necessità. A Tirinto, a Pilo, le ossa testimoniano animali di bella taglia, in miglior salute che nel Bronzo antico o nel Medioevo. Il maiale dominava il consumo di carne, facile da allevare, accontentandosi dei rifiuti urbani. Gli Ateniesi conoscevano diversi termini per designare l’animale secondo la sua età: choiros (χοῖρος) per il porcellino, delphax (δέλφαξ) per il giovane maiale, hys (ὗς) o sys (σῦς) per il maiale o la scrofa. Le pecore e le capre fornivano una carne più occasionale, i bovini restavano eccezionali, riservati alle grandi occasioni religiose. La carne si salava per l’inverno.
Il pesce, invece, era apprezzato da tutti. I mercati ateniesi ne traboccavano: sogliole, rombi, triglie, tonni, murene. Archestrato di Gela, gastronomo del IV secolo prima della nostra era, benché fiero della sua Sicilia, elogiava i pesci del Bosforo e gli storioni del lago Meotide[9]. Gli Ateniesi erano particolarmente ghiotti di pesciolini fritti, di acciughe, di sardine.
L’arte dei sapori
I Greci disponevano di una tavolozza aromatica considerevole. Il timo, l’origano, la menta, la ruta, il finocchio crescevano in abbondanza sulle colline aride. Ma gli aromi prestigiosi venivano da lontano. Erodoto raccontava queste leggende favolose sull’«Arabia Felice» da dove provenivano incenso, mirra, cannella, cinnamomo[10]. Dettagliava con gusto i pericoli che correvano i raccoglitori, affrontando pipistrelli e avvoltoi, o dovendo raccogliere il ladano, resina aromatica ricavata dal cisto, nel vello dei caproni.
Il silphion (σίλφιον) regnava sovrano sulle cucine raffinate. Questa pianta misteriosa della Cirenaica, oggi scomparsa, valeva quanto pesava in oro. I Cirenaici ne avevano fatto la loro fortuna e l’avevano incisa sulle loro monete. Archestrato la faceva intervenire abbondantemente nelle sue ricette. Aristofane proponeva negli Uccelli di servire i piccoli volatili arrostiti e irrorati di formaggio, d’olio di silfio e d’aceto[11]. I medici ne vantavano le virtù purgative, i cuochi ne profumavano razze e pesci nobili. Archestrato stesso raccomandava di usarne con discernimento: ideale con la razza, era inutile con il cefalo o il branzino che si bastavano a se stessi[12].
Il sale, esso, si estraeva dalle saline costiere o si importava. Se ne ricavava il garos (γάρος), quella salsa fermentata di interiora di pesce che profumava quasi tutti i piatti, antenata del garum romano. I Greci preparavano anche salamoie (almè – ἅλμη) per conservare olive, formaggi, carni.

Tra semplicità e ostentazione
Il regime alimentare greco variava considerevolmente secondo le classi sociali e le regioni. I testi letterari ci parlano soprattutto delle tavole aristocratiche, inventive, sensibili alle mode, ai prodotti esotici. Ma il popolo viveva in un’altra temporalità alimentare, quella della tradizione, del gesto quotidiano, della modesta sufficienza. La loro alimentazione resta largamente nell’ombra, non avendo lasciato né libri di ricette né libri contabili.
Il povero completava il suo ordinario con piante selvatiche: malva, asfodelo, aro. Teofrasto dedicava loro lunghi sviluppi, sottolineandone le virtù nutritive[13]. Le foglie di malva si cuocevano come i nostri spinaci, i tuberi di aro si riducevano in farina. Ma certe erbe si consumavano solo in ultima istanza: il centonchio, l’agrostemma, la parietaria erano «verdure di carestia», amare, talvolta tossiche, che richiedevano lunghe cotture.
All’opposto, le tavole distinte ricercavano la novità. Ateneo, molto più tardi, recensiva 72 tipi di pane diversi, di tutte le forme e sapori: al formaggio, al papavero, al miele, all’oliva, al sesamo. Il trattato ippocratico Del Regime analizzava le loro proprietà specifiche – lassativi, riscaldanti, nutrienti. La pasticceria ateniese godeva di una reputazione lusinghiera. I symposia dei ricchi si concludevano con stuzzichini dolci: dolci al miele, frutta secca, friandise varie.
I Greci pensavano anche l’alimentazione in termini di scarto: l’eccesso, la dismisura o la rottura degli usi alimentari facevano oggetto di discorsi morali, medici e mitologici, ricordando senza sosta il valore centrale della misura.
La dimensione sacra dell’atto alimentare
Mangiare, per un Greco, non era mai un atto puramente biologico. Il cibo tesseva il legame tra gli dèi e gli uomini, tra i cittadini stessi. I sacrifici scandivano la vita civica: si immolavano bovini durante le Panatenee, maiali alle Tesmoforie di Demetra. La carne sacrificale si divideva tra l’altare (grassi e ossa per gli dèi), i sacerdoti (pezzi prelibati), e il popolo (il resto). Questa ripartizione incarnava l’ordine sociale e cosmico.
I pasti collettivi rivestivano un’importanza politica considerevole. L’eranos (ἔρανος), pasto collettivo in cui ciascuno portava il suo contributo, manifestava l’uguaglianza tra cittadini. Il prytaneion (πρυτανεῖον), pasto offerto dalla città agli ospiti di riguardo, agli ambasciatori, ai vincitori olimpici, esprimeva la generosità pubblica. Il symposion, banchetto tra pari, saldava le élite. Tutti questi rituali alimentari definivano l’appartenenza alla comunità civica.
Alcuni filosofi, è vero, propugnavano un regime più austero. I pitagorici escludevano le fave, persino la carne. I cinici si accontentavano di malva e di asfodelo, alimenti supposti dell’Età dell’oro ritenuti capaci di sopprimere la fame e la sete. Ma questi estremi restavano minoritari. La maggioranza dei Greci ricercava l’equilibrio tra la frugalità imposta dalla geografia e il piacere legittimo della tavola.
L’eredità di una civiltà golosa
La cucina greca classica non ha soltanto trasmesso prodotti o ricette. Ha elaborato un modo di pensare il pasto: una gerarchia degli alimenti, un equilibrio tra frugalità e piacere, un’attenzione rivolta ai gesti, ai contesti e agli usi sociali del cibo.
Più che una cucina di ricette fisse, l’alimentazione greca appare così come una cultura dell’adattamento, fondata sulla sostituzione delle risorse e sull’aggiustamento costante tra necessità, disponibilità e gerarchia degli alimenti.
Questa eredità non si è interrotta con la fine del mondo greco classico. Roma l’ha ricevuta, trasformata e amplificata. La cena romana, il posto centrale del pane, dell’olio e del vino, l’uso delle salse fermentate, il gusto per gli aromi, la riflessione medica sugli alimenti o ancora l’opposizione tra tavola ordinaria e tavola ostentata prolungano quadri intellettuali e pratici forgiati in Grecia. Anche quando se ne discosta, la cucina romana dialoga con questo modello.
Comprendere la tavola greca significa così illuminare i fondamenti della tavola romana. Dietro la diversità dei piatti e dei gusti, si mantiene una stessa convinzione: mangiare non è mai un gesto neutro, ma una pratica sociale, culturale e simbolica.
Fonti
- Janick Auberger, Manger en Grèce classique. La nourriture, ses plaisirs et ses contraintes, Québec, Presses de l’Université Laval, 2010.
- Jean-Manuel Roubineau, «Grèce ancienne: quotidiens et accidents»; «Identités et altérités alimentaires»; «Les goûts et les gestes»; «Diètes et écarts», dans Joël Cornette & Florent Quellier (dir.), Histoire de l’alimentation. De la préhistoire à nos jours, Paris, Belin, 2021, p. 169–263.
[1] Plutarco, Vita di Alcibiade, 15, 7-8: ὀμνύουσι γὰρ ὅροις χρήσασθαι τῆς Ἀττικῆς πυροῖς, κριθαῖς, ἀμπέλοις, ἐλαίαις, οἰκείαν ποιεῖσθαι διδασκόμενοι τὴν ἥμερον καὶ καρποφόρον. «Perché giurano di utilizzare come frontiere dell’Attica i grani, gli orzi, le viti, gli ulivi, essendo insegnati a considerare come propria [terra] quella che è coltivata e portatrice di frutti». Lo stesso giuramento si trova in due documenti del IV secolo prima della nostra era: in Licurgo, Contro Leocrate, 77, e sulla stele di Acarne. Questi due testi menzionano inoltre «i fichi» (συκαῖ) tra i «confini della patria».
[2] Erodoto, Storie, VIII, 55: ἔστι ἐν τῇ ἀκροπόλι ταύτῃ Ἐρεχθέος τοῦ γηγενέος λεγομένου εἶναι νηός, ἐν τῷ ἐλαίη τε καὶ θάλασσα ἔνι, τὰ λόγος παρὰ Ἀθηναίων Ποσειδέωνά τε καὶ Ἀθηναίην ἐρίσαντας περὶ τῆς χώρης μαρτυρία θέσθαι. «C’è in questa acropoli un tempio di Eretteo, che si dice nato dalla terra, nel quale si trovano un ulivo e un mare [sorgente d’acqua salata], che secondo la tradizione degli Ateniesi, Poseidone e Atena, disputandosi il paese, deposero come testimonianze.»
[3] Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 60, 3: ἔστι γὰρ ἆθλα τοῖς μὲν τὴν μουσικὴν νικῶσιν ἀργύριον καὶ χρυσᾶ, τοῖς δὲ τὴν εὐανδρίαν ἀσπίδες, τοῖς δὲ τὸν γυμνικὸν ἀγῶνα καὶ τὴν ἱπποδρομίαν ἔλαιον. «I premi sono: per il concorso di musica, oggetti d’argento e d’oro; per il concorso di tenuta militare, uno scudo; infine per i giochi ginnastici e la corsa dei cavalli, dell’olio.»
[4] Dioscoride, I, 34.
[5] Esiodo, Le Opere e i Giorni, v. 589-593: εἴη πετραίη τε σκιὴ καὶ βίβλινος οἶνος, μάζα τ᾽ ἀμολγαίη γάλα τ᾽ αἰγῶν σβεννυμενάων, καὶ βοὸς ὑλοφάγοιο κρέας μή πω τετοκυίης πρωτογόνων τ᾽ ἐρίφων. «Che ci sia l’ombra di una roccia e del vino di Biblo, una focaccia di latte cagliato e del latte di capre a fine lattazione, e della carne di giovenca che bruca nei boschi e non ha ancora partorito, e di capretti primogeniti».
[6] Omero, Iliade, XI, 638-641,preparazione del kykeon (κυκεών): οἴνῳ Πραμνείῳ, ἐπὶ δ᾽ αἴγειον κνῆ τυρὸν κνήστι χαλκείῃ, ἐπὶ δ᾽ ἄλφιτα λευκὰ πάλυνε. «con del vino Pramnio, e grattugiò sopra del formaggio di capra con una grattugia di bronzo, e cosparse sopra della farina d’orzo bianca»; II, 507: οἵ τε πολυστάφυλον Ἄρνην ἔχον. «coloro che possedevano Arnè ricca d’uva»; IX, 152 e 294: Πήδασον ἀμπελόεσσαν. «Pedaso ricca di vigne».
[7] Omero, Odissea, IX, 196-199: αἴγεον ἀσκὸν ἔχον μέλανος οἴνοιο ἡδέος, ὅν μοι ἔδωκε Μάρων, Εὐάνθεος υἱός, ἱρεὺς Ἀπόλλωνος, ὃ Ἴσμαρον ἀμφιβεβήκει. «Avevo un otre di vino nero e dolce, che mi aveva donato Marone, figlio di Euante, sacerdote di Apollo che abitava Ismaro»; IX, 345-347: κισσύβιον μετὰ χερσὶν ἔχων μέλανος οἴνοιο: Κύκλωψ, τῆ, πίε οἶνον. «tenendo nelle mie mani una coppa di vino nero: Ciclope, tieni, bevi del vino».
[8] Aristofane, L’Assemblea delle donne, v. 305-308: ἀλλ᾽ ἡ̂κεν ἕκαστος ἐν ἀσκιδίῳ φέρων πιει̂ν ἅμα τ᾽ ἄρτον αὑτῳ̂ καὶ δύο κρομμύω καὶ τρει̂ς ἂν ἐλάας. «ma ciascuno veniva portando in una piccola otre di che bere, con del pane, due cipolle e tre olive.»
[9] Citato da Ateneo di Naucrati, Deipnosofisti, VII, 278c-e.
[10] Erodoto, Storie, III, 106-107: Πρὸς δ’ αὖ μεσαμβρίης ἐσχάτη Ἀραβίη τῶν οἰκεομενέων χωρέων ἐστί, ἐν δὲ ταύτῃ λιβανωτός τε ἐστὶ μούνῃ χωρέων πασέων φυόμενος καὶ σμύρνη καὶ κασίη καὶ κινάμωμον καὶ λήδανον. «Verso sud, all’estremità delle terre abitate, si trova l’Arabia; è l’unico paese dove crescono l’incenso, la mirra, la cassia, il cinnamomo e il ladano.» Erodoto descrive poi le leggende sui pericoli della loro raccolta.
[11] Aristofane, Gli Uccelli, v. 531-535: ἀλλ᾽ ἐπικνω̂σιν τυρὸν ἔλαιον σίλφιον ὄξος. «ma vi cospargono di formaggio, olio, silfio, aceto»; et v. 1579-1580: φέρε σίλφιον: τυρὸν φερέτω τις. «porta il silfio: che qualcuno porti il formaggio».
[12] Archestrato, frammento citato da Ateneo di Naucrati, Deipnosofisti, VII, 26 (295d-e): καὶ βατίδ᾽ ἑφθὴν ἔσθε μέσου χειμῶνος ἐν ὥρῃ, / κἀπ᾽ αὐτῇ τυρὸν καὶ σίλφιον ἅττα τε σάρκα / μὴ πίειραν ἔχῃ πόντου τέκνα, τῷδε τρόπῳ χρὴ / σκευάζειν. «E mangia la razza bollita nel mezzo dell’inverno, in stagione, e su di essa del formaggio e del silfio, e tutti i pesci la cui carne non è grassa, bisogna prepararli in questo modo».
[13] Teofrasto, Storia delle piante (libri VII-IX).