Gleukos, il mosto che inganna

Tradotto dal francese


Niente a che vedere con il succo d’uva dei nostri supermercati. Vivendo in una regione vinicola, a volte si può gustare, durante la vendemmia, un mosto appena uscito dal torchio. Una bevanda dorata e torbida che diventa rapidamente leggermente frizzante e schiumosa quando inizia naturalmente il processo di fermentazione.

Era questo prodotto fresco della vite che gli antichi Greci chiamavano gleukos e i Romani mustum. Succo non fermentato o vino nuovo alcolico? La cosa divide gli esperti. Ma è un po’ superflua. La caratteristica principale del gleukos è la sua dolcezza, come suggerisce il suo nome greco[1]. Infatti, questa bevanda è dolce perché tutto lo zucchero non è stato trasformato in alcol. Quindi ha un basso contenuto alcolico. QED.

Le foulage du raisin sur une mosaïque d'une villa gallo‑romaine de Saint‑Romain‑en‑Gal (Rhône), début du IIIe siècle de notre ère, musée de Saint‑Germain‑en‑Laye.
Il calpestio dell’uva su un mosaico di una villa gallo-romana di Saint Romain en Gal (Rhône), all’inizio del III° secolo d.C., museo di Saint Germain en Laye.

Questo gleukos era accessibile a coloro che non avevano il diritto di ubriacarsi: donne, bambini, schiavi. Tuttavia, poiché la fermentazione non era stabile, la bevanda poteva ingannare. Negli Atti degli Apostoli, testo cristiano del I° secolo, il narratore descrive la reazione delle persone che vedono i discepoli di Gesù sotto l’influenza dello Spirito Santo. Alcuni erano impressionati, “ma altri deridevano, dicendo: Sono pieni di gleukos”.[2]

Cottura…

Se non si voleva fare vino con l’uva spremuta, la principale sfida era come conservare il mosto dalla fermentazione. Gli agronomi antichi descrivono numerosi metodi per farlo.

Il più comune era la riduzione del liquido attraverso la cottura. Plinio il Vecchio spiega che, quando la riduzione è di un terzo, il risultato è chiamato sapa dai Latini e hepsema altrove[3]. Se la riduzione è della metà, si tratta di defrutum.

La cottura serve sia a eliminare i batteri responsabili della fermentazione sia a concentrare lo zucchero, impedendo così la produzione di alcol. Si ottiene quindi uno sciroppo, che può essere utilizzato in cucina o come bevanda diluita in acqua, eventualmente con un po’ di sale e varie spezie.

… o raffreddamento

L’altro metodo descritto dagli autori è il raffreddamento. Certo, non blocca fermentazione, ma la rallenta notevolmente. Durante l’Antichità, la refrigerazione non era una cosa semplice.

Anche su questo punto, Plinio ci informa: “L’aigleucos dei Greci è a metà strada tra le sostanze dolci e il vino; si ottiene prendendosi cura di impedirne la fermentazione (chiamano fermentazione la trasformazione del mosto in vino): il mosto estratto dalla vasca e messo nei contenitori viene immediatamente immerso nell’acqua, fino a quando non passa il solstizio d’inverno e arriva la stagione del gelo.”[4]

All’incirca nello stesso periodo, cioè nella prima metà del I° secolo d.C., l’agronomo Columella dà una descrizione un po’ più dettagliata: “Per far sì che il mosto rimanga sempre dolce come quando è fresco, usa il seguente metodo: prima di sottoporre la vinaccia all’azione del torchio, preleva dalla vasca, in una nuova anfora, l’ultimo mosto sgocciolato; chiudila, rivestila di pece con molta cura, in modo che non possa entrare umidità. Poi immergila completamente in una piscina di acqua dolce e fredda, in modo che nessuna parte del vaso sia esposta; poi, dopo quaranta giorni, estrai l’anfora”[5] Due secoli prima, Catone aveva già descritto un metodo molto simile.[6]

Al raffreddamento si aggiunge l’idea di sigillare ermeticamente il contenitore, in modo che sia l’aria che l’acqua non possano entrarvi.

Chissà se le anfore accuratamente sigillate da un viticoltore contemporaneo di Catone, Plinio o Columella non stanno aspettando che le scopriamo? Potremmo forse scoprire, non quaranta giorni ma venti secoli dopo la sua immersione, un mosto ancora bevibile!

[1] γλεῦκος, εος-ους (τὸ), derivato da γλυκύς, εῖα, ύ che significa “dolce”. La parola ha dato origine ai nostri glucidi e glucosio. Da non confondere con glaukos (γλαυκός, ή, όν), un aggettivo che indica il colore del mare e, per estensione, una tonalità blu, verde o grigia.

[2]Atti 2:13 : Ἕτεροι δὲ χλευάζοντες ἔλεγον ὅτι Γλεύκους μεμεστωμένοι εἰσίν.

[3] Plinio, Storia Naturale, 14, XI, 1.
“Altrove” si intende “in tutto il mondo di cultura greca”. Hepsema (ἕψημα) significa letteralmente “ciò che è stato cotto o bollito”.

[4]  Plinio, Storia Naturale, 14, XI, 3: medium inter dulcia vinumque est quod Graeci aigleucos vocant, hoc est semper mustum. id evenit cura, quoniam fervere prohibetur — sic appellant musti in vina transitum —; ergo mergunt e lacu protinus aqua cados, donec bruma transeat et consuetudo fiat algendi.
La parola aigleucos corrisponde al greco ἀεὶ γλεῦκος: sempre dolce.

[5] Columella, De re rustica, 12, 29.

[6] Catone l’Antico, De Agricultura, 120: “Se vuoi mantenere la dolcezza del vino per tutto l’anno, mettilo in un’anfora le cui pareti sono state rivestite di pece, e immergilo in un pozzo; dopo che sarà rimasto lì per trenta giorni, estrailo: sarà dolce per tutto l’anno”.

Prima pubblicazione nel nell’ottobre. Riproduzione vietata.


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