L’anfora colpisce ancora

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Suggestion sur la façon dont les amphores peuvent être empilées sur une galère. Château de Bodrum, Turquie (photo Wikimedia commons).
Suggerimento su come impilare le anfore su una galea. Castello di Bodrum, Turchia (foto Wikimedia commons).

È uno degli oggetti simbolo dell’antichità. L’anfora ricopre ancora oggi parte dei fondali del Mediterraneo, è un’attrazione turistica nei negozi di souvenir e porta con sé tutta una mitologia specifica di questi antichi oggetti, ormai scomparsi. Ebbene, no! Da poco più di un decennio l’anfora sta tornando in auge per la conservazione del vino. Un uso che era uno dei più diffusi nell’antica Roma.

Prima di diventare romana, l’anfora (etimologicamente: portata su entrambi i lati, con due anse) è di origine mediorientale. Nelle regioni in cui i deserti superavano le foreste, la capacità di produrre contenitori a base di argilla era essenziale. L’anfora passò poi in Grecia e divenne una stella romana intorno al III secolo a.C.. Veniva prodotta a milioni di semplari ed era utilizzata per trasportare l’olio, per rifornire le legioni in vino, ma poteva anche contenere frutta secca, pesce in salamoia o il famoso garum.

Questo oggetto così comune racconta sia la vita quotidiana dei Romani che la globalizzazione dell’Impero, dato che se ne trovano tracce fino in Asia.

Dall’oggetto comune alla spazzatura c’è poca distanza. Infatti, se l’anfora serviva per la conservazione, difficilmente veniva essa conservata dopo l’uso. La collina del Testaccio a Roma, resa famosa da Pasolini nel suo film Accattone, è in realtà un cumulo di rifiuti costituito dai resti di 50 milioni di anfore.

Più romantica e altrettanto testimone dell’importanza delle anfore, soprattutto se piene di vino, è questa gustosa citazione di Marziale:

«Stavo pensando un mattino che regalo fare alla bella Fillide, che per tutta la notte si era mostrata gentile con me in tutte le maniere, se una libbra di profumo di Cosmo o di Nicerote, oppure una grande quantità di lana betica oppure dieci monete d’oro di conio imperiale. Fillide abbracciandomi sul collo e lusingandomi con un bacio così lungo quanto è quello delle colombe innamorate, cominciò a chiedermi un’anfora di vino.»[1]

Come sottolinea Sarah Rey, docente al Politecnico degli Hauts-de-France, l’anfora è sopravvissuta persino all’Impero romano, poiché se ne trovano tracce fino all’VIII secolo.[2]

Ma l’anfora ha dovuto fare i conti e un pericoloso rivale: la botte, che, contrariamente a quanto si crede, non è gallica. Le sue origini risalgono a circa cinque secoli a.C. e due regioni se ne contendono la paternità: la Rezia, situata tra il Tirolo austriaco, i Grigioni e il Friuli italiano fino a Verona, e l’Etruria, ovvero l’attuale Toscana, parte dell’Umbria e dell’Emilia Romagna. Due regioni in realtà molto vicine.

È quindi più che plausibile che botti e anfore abbiano convissuto per diversi secoli, insieme a un terzo attore: le dolia. Questi enormi vasi di terracotta venivano sistemati nelle navi più o meno come i contenitori trasportati oggi sui porta container. Fu probabilmente la combinazione di dolia e botti a porre fine alla gloriosa epoca delle anfore. Lo storico e archeologo André Tchernia ci fornisce un esempio: «Il vino portato in dolia dalla Campania o da Tarracona risaliva il Rodano fino a Lione, dove veniva travasato nelle botti. Altre barche le caricavano sulla Saona e le botti venivano trasportate su carri attraverso l’altopiano di Langres fino al Reno.»[3]

Troppo pesante rispetto alla botte, troppo piccola rispetto alla dolia, l’anfora scomparve gradualmente dai grandi circuiti commerciali. La botte divenne quindi il simbolo del trasporto e della conservazione del vino.

Per molti versi, lo è ancora. Tuttavia, così come il farro è stato soppiantato dal grano nell’antichità ed ora sta tornando sui nostri tavoli, l’anfora sta tornando in auge ed è molto più di un’attrazione per i subacquei. Da un lato, le sue qualità conservative sono reali, favorendo un’ottima ossigenazione del vino. D’altra parte, l’argilla, a differenza del legno, è un materiale neutro: non altera il gusto originale del vino con il legno. L’anfora è quindi particolarmente adatta ai vini «naturali», dove l’obiettivo principale è quello di esaltare il fruttato del vino

In ogni caso, i viticoltori di oggi si ispirano senza dubbio tanto alle anfore romane quanto ai kwevri georgiani. Utilizzate ininterrottamente da millenni in Georgia per la fermentazione e la conservazione del vino, assomigliano più a dolia che ad anfore e sono molto più antiche delle più anziane anfore mediterranee: ne sono state trovate tracce risalenti al 6000 a.C.[4]

 

[1] Marziale, Epigrammi, libro 12 – LXV: Formonsa Phyllis nocte cum mihi tota se praestitisset omnibus modis largam, et cogitarem mane quod darem munus, utrumne Cosmi, Nicerotis an libram, an Baeticarum pondus acre lanarum, an de moneta Caesaris decem flavos: amplexa collum basioque tam longo blandita quam sunt nuptiae columbarum, rogare coepit Phyllis amphoram vini.

[2] Sarah Rey, «Pourquoi faire l’histoire de l’amphore?», présentation du magazine Faire l’histoire «L’amphore, un standard commercial antique», diffusé sur Arte samedi 20 novembre 2021.

[3] André Tchernia, «Rome et le vin: l’amphore, le tonneau et les dolia», in L’Histoire, décembre 2022

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Kvevri


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