Tradotto dal francese
È un oggetto misterioso quasi quanto il famoso dodecaedro romano[1]… Un manico lungo circa un cubito (circa 45 cm), con cinque o sette artigli alla sommità, disposti a stella intorno a un anello. Molti musei ne espongono esempi, tra cui il museo d’arte e di storia di Ginevra (MAH), su cui torneremo più avanti. A cosa poteva servire questo strano oggetto?
Fin dal Rinascimento, gli storici vantano diverse teorie. Una di queste può essere vista in un affresco dell’inizio del XIX secolo nel Museo Chiaramonti in Vaticano, che commemora il martirio dei cristiani nell’anfiteatro Flavio, il famoso Colosseo. Tra gli strumenti di tortura raffigurati, il quello artigliato è chiaramente riconoscibile. Ammettendo che possa essere stato usato in un contesto così morboso, non era certo il suo scopo originario.
Una zanna impressionante
La spiegazione più ovvia è che si tratti di una zanna, usata per maneggiare la carne alla griglia o come rampino. Uno strumento che i Romani chiamavano harpago, parola ereditata dal greco harpazo (ἁρπάζω) che significa “afferrare, togliere con la forza”.
Nella vetrina del museo ginevrino, l’etichetta dell’oggetto esposto va in questa direzione. Si legge: Gancio da carne, bronzo, periodo romano, (provenienza) Chiusi. Ma uno sguardo al catalogo[2] ci lascia sorpresi.
L’interpretazione sull’uso dell’oggetto e la sua datazione sono tutte diverse: si pensa che l’artiglio risalga al IV o V secolo a.C. e che sia un accessorio per l’illuminazione, una torcia o un porta torcia, “forse usato nelle cerimonie legate al culto del dio del sole etrusco, Usil, al tempo del solstizio”. L’oggetto è conosciuto con nomi diversi da harpago: in greco antico kreagra (κρεάγρα)[3] o pempobolon (πεμπώϐολον) e, nel vocabolario degli studiosi italiani, graffione.
Specchio delle mie brame…
Questa interpretazione rimane comunque un argomento di dibattito. La maggior parte delle spiegazioni converge su un’unica fonte: uno specchio etrusco attualmente conservato al Metropolitan Museum di New York[4]. Mostra una figura che porta una specie di torcia con artigli, da cui fuoriescono fiamme. Si tratta di una rappresentazione delle nozze di Alcestis e Admetus, una coppia leggendaria che simboleggia l’amore coniugale[5].
Tuttavia, l’archeologo italiano Vittorio Mascelli cita una seconda fonte: uns magnifica patera risalente alla metà del III secolo a.C. e rinvenuto nell’antica città etrusca di Tarquinia[6]. Questo raffigura la storia del rapimento di Persefone da parte di Ade. Mostra Demetra che insegue il carro del rapitore con due torce, una delle quali a forma di graffione.
Il sistema che permetteva a questo curioso oggetto di fare luce era apparentemente molto semplice: una corda imbevuta di un prodotto infiammabile circondava gli artigli e l’estremità della corda passava attraverso un piccolo anello perpendicolare.
La ricerca dell’anello
È quest’ultimo dettaglio –l’anello perpendicolare o talvolta un altro dispositivo simile–
a fare la differenza. Quando è presente, come nell’esempio del museo ginevrino, si tratta certamente di un supporto per la torcia; quando è assente, è un gancio per la carne. In effetti, questa appendice non serve a scottare la carne sulla griglia, anzi è addirittura fastidiosa.
È probabile che gli Etruschi avessero entrambe le versioni e le usassero. Ma in epoca romana è sopravvissuto solo l’uso culinario, a volte con qualche squallida usanza derivata, poiché a Roma era pratica comune, per aumentare l’infamia di una condanna a morte, trascinare il cadavere con una zanna nel Tevere[7].
Tuttavia, è stato in senso figurato –ci mancherebbe– che l’arpago romano è fiorito. In Plauto, la parola ha già un significato figurato in un’invettiva salata[8]:
“Cattivo consigliere, prodigo di dolci parole, rapace, bugiardo, goloso, avido di denaro, curioso di civetterie, assetato di bottino, corruttore degli abitué dei luoghi malfamati; adulatore, bisognoso, fiuta il bene che viene tenuto nascosto!”.
Qui l’harpago è un avaro che, come un uccello rapace dagli artigli affilati, cerca di prendere e tenere tutto. Molière, che aveva una cultura latina piuttosto vasta, non poteva che chiamare il suo Avaro Arpagone.
[1] Si veda la voce dodecaedro romano su Wikipedia.
[2] Catalogo online del museo d’arte e di storia d Ginevra, opera inventariata con il numero I 0794.
[3] Sia il latino harpago che il greco kreagra si riferiscono a strumenti artigliati di tutte le dimensioni, in particolare per afferrare la carne nelle pentole… la versione di cui parliamo qui è più grande. Il manico è lungo da 30 a 50 centimetri e spesso termina con una presa che permette di fissare l’oggetto all’estremità del manico. Gli artigli formano un cerchio di 20-40 cm di diametro.
[4] Metropolitan Museum of Art, Bronze mirror, Etruscan, ca. 400–350 BCE.
[5] Ministère français de l’éducation nationale, Odysseum, Une image, une histoire: Alceste et Admète.
[6] Vittorio Mascelli, Il rapimento di Persefone in una patera da Tarquinia, Museo dell’Academia Eteusca della città di Cortona, 2021 (vidéo). Vedi anche: Cos’è ilgraffone e come veniva usato?.
[7] Claire Laborde-Menjaud, Le corps en droit, La seconde mort de l’ennemi. Dégradation de cadavre, interdiction de sépulture et destruction des restes humains dans la Rome antique (openedition.org)
[8] Plauto, Trinummus, atto II, scena 1: ab re consulit, blandiloquentulus, harpago, mendax, cuppes, avarus, elegans, despoliator, latebricolarum hominum conruptor, blandus, inops celatum indagator.
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