Tradotto dal francese

In questo complesso di 13 ettari, dotato di piscine, palestre, biblioteche e botteghe di alimentari, tremila persone si affollavano quotidianamente. No, non siamo in un centro balneare contemporaneo, ma nelle terme di Diocleziano, nel cuore della Roma imperiale. Nel IV secolo, la capitale contava non meno di 952 stabilimenti di bagni pubblici[1].
La concezione dei bagni romani testimonia un raffinamento ingegnoso: il caldarium, surriscaldato da condotti d’aria calda che circolavano nelle pareti e sotto i pavimenti (così bollenti che bisognava indossare sandali speciali[2]), il tepidarium temperato, e infine il frigidarium con le sue vasche gelate. Un percorso termale pensato per i sensi.
Balnea Vina Venus
Segno dell’importanza dei bagni (ma non solo), una certa Merope fa incidere nel I secolo della nostra era sulla tomba del suo compagno Tiberius Claudius Secundus una formula in voga all’epoca: balnea vina Venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt – «i bagni, il vino e il sesso rovinano i nostri corpi, ma rendono la vita degna di essere vissuta»[3].
La committente dell’iscrizione, una liberta imperiale, piange il suo «caro compagno di vita» morto a 52 anni. Nel suo dolore, infrange le convenzioni funerarie: invece di vantare le virtù civiche del defunto, sceglie di celebrare i piaceri che hanno illuminato la loro esistenza. Ancora più audace, l’epitaffio afferma che egli «ha tutto con sé» nella tomba (hic secum habet omnia) – come se questi godimenti terreni lo accompagnassero nell’aldilà.
Questa scelta non è isolata. In tutto l’Impero, varianti di questa filosofia edonistica si incidono nella pietra e nel metallo.
A Ostia, Domitius Primus si vanta nel III secolo: «Ho vissuto di ostriche del Lucrino, ho spesso bevuto Falerno. I bagni, i vini e l’amore sono invecchiati con me.»[4]

Tra gli oggetti conosciuti che portano la stessa massima, figura un grande cucchiaio d’argento trovato a metà del XIX secolo a Nea Lampsakos, l’attuale Gallipoli (Gelibolu) sulla riva nord dei Dardanelli in Turchia. L’oggetto è scomparso in un incendio nel 1922, ma disponiamo di un rilievo preciso[5]. Nella cavità del cucchiaio si poteva leggere, ripartito su due righe:
BALNEA VINA VENUS FACIUNT PRO/PERANTIA FATA
Ossia letteralmente «I bagni, i vini e Venere fanno destini che si affrettano». In altre parole: i piaceri della vita accelerano soggettivamente il passare del tempo, il che può essere inteso come un incitamento, ma anche un avvertimento.
Lo stesso cucchiaio portava una seconda iscrizione, in greco questa volta, sulla sezione quadrata del manico:
ΘΥΩΝ ΤΗΡΙ ΤΗΝ ΚΗΛΗΝ ΣΟΥ
Che significa «quando sacrifichi, sorveglia la tua ernia». Una sentenza molto misteriosa… per chi non conosca un certo epigramma di Marziale. Infatti il poeta racconta una disavventura che si può mettere direttamente in rapporto con l’iscrizione.
Un aruspice etrusco chiede a un contadino di castrare un capro prima di sacrificarlo a Bacco. Mentre l’aruspice si china per sgozzare l’animale, un’«ernia» (evocazione immaginosa di un altro appendice) appare improvvisamente, che il contadino ingenuo prende per un elemento del sacrificio e taglia subito. L’indovino si ritrova così involontariamente castrato e trasformato in sacerdote eunuco. Da Tuscus (etrusco), diventa Gallus (nome dato ai sacerdoti eunuchi del culto di Cibele che si auto-mutilavano).[6]
Il cucchiaio scomparso associa dunque saggezza epicurea ed erudizione licenziosa. Questa filosofia del piacere trova il suo terreno d’espressione privilegiato nelle terme.
Seneca, che abita sopra un complesso termale verso il 50 della nostra era, ci immerge in questa atmosfera descrivendola al suo amico Lucilio[7]:
«Immagina ora ogni genere di baccano odioso agli orecchi: quando i più forti si allenano e fanno sollevamento pesi, quando faticano o fingono di faticare, odo gemiti, e, tutte le volte che trattengono il fiato ed espirano, sibili e ansiti; quando càpita qualcuno pigro che si contenta di un normale massaggio, sento lo scroscio delle mani che percuotono le spalle e che dànno un suono diverso se battono piatte o ricurve. Se poi arrivano quelli che giocano a palla e cominciano a contare i colpi, è fatta. Mettici ancora l’attaccabrighe, il ladro colto in flagrante, quello cui piace sentire la propria voce mentre fa il bagno, e poi le persone che si tuffano in piscina e smuovendo l’acqua fanno un fracasso indiavolato.
Oltre a tutti questi che, se non altro, hanno voci normali, pensa al depilatore che spesso sfodera una vocetta sottile e stridula per farsi notare e tace solo quando depila le ascelle e costringe un altro a gridare al suo posto. Poi ci sono i vari richiami del venditore di bibite, il salsicciaio, il pasticcere e tutti gli esercenti delle taverne che vendono la loro merce con una particolare modulazione della voce.»
Democratizzazione del lusso e gerarchie sociali

Contrariamente alle idee preconcette, le terme romane non erano riservate a un’élite. Le spese d’ingresso rimanevano irrisorie, persino gratuite durante le festività e le campagne politiche, permettendo a tutte le classi sociali di accedere a questi godimenti.
Ma la gerarchia sociale si ricostituiva nello spazio termale stesso. Certi aristocratici arrivavano scortati da cinquanta servitori[8], e degli spazi erano loro riservati per sfoggiare i loro più sontuosi ornamenti.
La separazione dei sessi era osservata, donne e uomini si facevano il bagno a orari distinti. Il medico Sorano di Efeso raccomandava persino alle donne di frequentare le terme in preparazione al parto[9].
L’evoluzione della triade antica bagni-vini-sesso rivela le trasformazioni profonde delle mentalità occidentali. I bagni, simbolo del raffinamento romano, scompaiono progressivamente dalla cultura europea medievale, vittime della diffidenza cristiana verso i piaceri carnali e del crollo delle infrastrutture urbane. I piaceri di Venere, dal canto loro, si trovano strettamente inquadrati dalla morale cristiana che oppone castità e lussuria, trasformando la celebrazione antica dell’amore in fonte di colpevolezza. Solo il vino resiste meglio a questa trasformazione, trovando il suo posto nella liturgia cristiana pur conservando le sue connotazioni conviviali.
Se la triade riappare ancora in una raccolta del XVIII secolo, è per subire una condanna senza appello: balnea, vina, Venus virtutis vera venena «I bagni, il vino, Venere sono i veri veleni della virtù»[10].
[1] The Chronography of 354 AD. Part 14: Notice of the 14 regions of the City.
[2] PBS Nova, “Roman Baths: The Caldarium”, citato in The Conversation, Baths, wine, and sex make life worth living
[3] CIL VI, 15258, Roma, I secolo della nostra era: V(ixit) an(nos) LII d(is) M(anibus) Ti(beri) Claudi Secundi hic secum habet omnia balnea vina Venus corrumpunt corpora nostra se<d=T> vitam faciunt b(alnea) v(ina) V(enus) karo contubernal(i) fec(it) Merope Caes(aris) et sibi et suis p(osterisque) e(orum).
[4] CIL XIV, 914 : D(is) M(anibus) C(aius) Domiti Primi hoc ego su(m) in tumulo Primus notissi mus ille vixi Lucrinis pota<v=B>i saepe Fa lernum baln<e=I>a vina Venus mecum senuere per annos hec(!) ego si potui sit mihi terra lebis(!) et tamen ad Ma nes foenix(!) me serbat(!) in ara qui me cum properat se reparare sibi l(ocus) d(atus) funeri C(ai) Domiti Primi a tribus Messis Hermerote Pia et Pio.
[5] CIL III 12274c. Salomon Reinach, Une cuiller d’argent du musée de Smyrne, Bulletin de Correspondance Hellénique, 1882, 6, pp. 353-355.
[6] Marziale, Epigrammi, III, 24: Vite nocens rosa stabat moriturus ad aras / hircus, Bacche, tuis uictima grata focis; / quem Tuscus mactare deo cum uellet aruspex, / dixerat agresti forte rudique uiro / ut cito testiculos et acuta falce secaret, / taeter ut inmundae carnis abiret odor. / Ipse super uirides aras luctantia pronus / dum resecat cultro colla premitque manu, / ingens iratis apparuit hirnea sacris. / Occupat hanc ferro rusticus atque secat, / hoc ratus antiquos sacrorum poscere ritus / talibus et fibris numina prisca coli.
Coupable d’avoir grignoté une vigne, se tenait près de tes autels un bouc destiné à mourir, ô Bacchus, victime agréable à tes foyers. Comme l’haruspice étrusque voulait l’immoler au dieu, il avait dit par hasard à un paysan rustique et grossier de couper rapidement les testicules avec une faucille aiguisée, afin que s’en allât l’odeur fétide de cette chair immonde. Lui-même, penché au-dessus des verts autels, tandis qu’il tranchait au couteau le cou qui se débattait et le maintenait de la main, une énorme hernie apparut, au grand scandale des rites sacrés. Le paysan s’en empare avec son fer et la coupe, pensant que les anciens rituels des sacrifices exigeaient cela et que les divinités antiques étaient honorées par de telles entrailles. Ainsi, toi qui étais tout à l’heure haruspice étrusque, te voilà maintenant haruspice galle : en égorgeant un bouc, tu es devenu toi-même un chevreau.[7] Seneca, Lettere a Lucilio, Lettera 56, verso il 50 della nostra era: [1] (…) Propone nunc tibi omnia genera vocum quae in odium possunt aures adducere: cum fortiores exercentur et manus plumbo graves iactant, cum aut laborant aut laborantem imitantur, gemitus audio, quotiens retentum spiritum remiserunt, sibilos et acerbissimas respirationes; cum in aliquem inertem et hac plebeia unctione contentum incidi, audio crepitum illisae manus umeris, quae prout plana pervenit aut concava, ita sonum mutat. Si vero pilicrepus supervenit et numerare coepit pilas, actum est. [2] Adice nunc scordalum et furem deprensum et illum cui vox sua in balineo placet, adice nunc eos qui in piscinam cum ingenti impulsae aquae sono saliunt. Praeter istos quorum, si nihil aliud, rectae voces sunt, alipilum cogita tenuem et stridulam vocem quo sit notabilior subinde exprimentem nec umquam tacentem nisi dum vellit alas et alium pro se clamare cogit; iam biberari varias exclamationes et botularium et crustularium et omnes popinarum institores mercem sua quadam et insignita modulatione vendentis.
[8] Ammiano Marcellino, Res Gestae, 28, racconto del IV secolo della nostra era.
[9] Sorano di Efeso, Trattato di ginecologia, II secolo della nostra era.
[10] Florilegium Latinum, sive Hortus Proverbiorum, par D. Joannem de Lama, Madrid, 1769, p. 330
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