Cinquanta sfumature di scrofa

Obelix aveva i cinghiali, i romani i maiali1. Bestie onnivore, poco costose da mantenere, erano diffuse nelle campagne, anche in fattorie modeste.
Il professore di linguistica Paolo Poccetti, dell’Università di Roma 2-Tor Vergata, presenta il maiale come «un animale al centro del mondo» romano. Ricorda che il latino classico propone ben undici termini per nominare il maiale: giovane o vecchio, maschio o femmina, castrato o no2 … Ed era l’unico animale specificamente allevato per la macelleria. Insomma, una grande attenzione era rivolta ad un unico scopo: nutrire i Romani.
Ripieno, stufato, allo spiedo, intero, in salamoia, fresco, in salsiccia, c’erano, come oggi d’altronde, innumerevoli modi di cucinare il suino, per soddisfare tutti i palati, tutte le tasche e tutti gli dei, dato che era la carne sacrificale più diffusa.
Praticamente in tutte le opere che trattano di cucina antica, nel capitolo «carne di maiale», troviamo più o meno questa citazione dell’autore e naturalista del primo secolo d.C. Plinio il Vecchio: «Nessun animale fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, La sua carne prensenta circa cinquanta sapori, mentre quella degli altri animali ne ne ha solo uno»3.
Per assaporare questi cinquanta sapori, nessuna parte dell’animale era tralasciata: muso, orecchie, cervello, stomaco, fegato, piedi, coda, non si scordava nulla. Molto meno che al giorno d’oggi. Ed a maggior ragione se si trattava di una scrofa. Lì, erano proprio cinquanta sfumature.
Anche il grembo e i capezzoli venivano consumati. E non pensate che questi fossero poveri bocconi riservati ai momenti di crisi. Tette (sumina) e ventri (vulvae) abbellivano le tavole più prestigiose della società romana. Questo vi lascia perplessi? Ascoltiamo Oribasio, un medico greco del IV secolo d.C. che curò l’imperatore romano Giuliano. È ditirambico a proposito di queste oppe: «Le ghiandole delle mammelle, quando contengono latte, offrono qualcosa della dolcezza di questo liquido; ed è proprio per questo che codeste ghiandole, quando sono piene di latte, soprattutto quelle delle scrofe, costituiscono un piatto molto ricercato dai buongustai»4.
Per quanto riguarda la vula o le matrici, Apicio propone sei ricette: quattro condite con pepe e garum, una alla griglia e una in quenelle5. I gastronomi discutevano su quale fosse la vulva migliore: i più numerosi, come Plinio, giuravano sulla matrice di una scrofa vergine, ritenuta più tenera, mentre altri, come il poeta Marziale, preferivano le matrici che avevano già servito, perché considerate più gustose.
Secondo Plinio6, Apicio aveva inventato una ricetta che consisteva nel riempire una scrofa di fichi, darle del vino mielato e ucciderla senza preavviso. Il fegato sottoposto a questo trattamento era, secondo la tradizione, delizioso.
Mai a corto di inventiva, Apicio suggeriva anche di riempire lo stomaco dell’animale con il suo cervello7: «Riempite lo stomaco, lasciando spazio in modo che non scoppi durante la cottura». Essendo farcità così spesso, la scrofa avrebbe acquisito il termine troia, in riferimento al cavallo immaginato da Ulisse8.
E i suini? A quanto pare, la loro sorte era più invidiabile. Per esempio, non si poteva mangiare i loro testicoli perché si diceva9 che avevano un odore schifoso…

1 In realtà, i Galli mangiavano soprattutto animali da fattoria.
2 Sus; aper; porcus; verres; maialis; porca; porcetra; scrofa; porcus lactens, sacris, delic(ul)us.
3 Historia naturalis, liber VIII, LXXVII (209) : neque alio ex animali numerosior materia ganeae: quinquaginta prope sapores, cum ceteris singuli.
4 Oribasio (Ὀρειβάσιος), Collezione medica, 32 : οἱ δὲ ἐν τοῖς τιτθοῖς, ὅταν ἔχωσιν γάλα, καὶ τῆς ἐκείνου τι γλυκύτητος ἐμφαίνουσι, καὶ διὰ τοῦτο περισπούδαστόν ἐστι τοῖς λιχνοῖς ἔδεσμα πλήρεις γάλακτος οἱ ἀδένες οὕτοι γευόμενοι, καὶ μάλιστα ἐπι τῶν ὑῶν.
5 De re coquinaria, liber VII, I (252, 253, 254, 255, 257) & liber II, III (59).
6 Stesso passaggio di cui sopra.
7 De re coquinaria, liber VII, VII (287): reples aqualiculum sic ut laxamentum habeat, ne dissiliat in coctura.
8 Marziale (Saturn., III, 13, 13).
9 Oribasio, brano citato sopra.

Fonti

  • Paolo Poccetti, Un animale al centro del mondo. Le cochon dans l’Antiquité italique et romaine, Schedae, Université de Caen, 2009: https://www.unicaen.fr/puc/html/ecrire/preprints/preprint0082009.pdf
  • Jacques André, L’alimentazione e la cucina a Roma, ed. Belles Lettres, 2009. P.136-138.
  • Antonietta Dosi, Giuseppina Pisani Sartorio, Ars culinaria, Donzelli editore, 2012.

 


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