Article en français / English version

È uno degli oggetti simbolici dell’Antichità. L’anfora tappezza ancora oggi una parte dei fondali del Mediterraneo, fa da acchiappaturisti nelle botteghe di souvenir e trascina dietro di sé tutta una mitologia propria di questi oggetti antichi oggi scomparsi. Ebbene no! L’anfora sta facendo un ritorno degno di nota da poco più di una decina d’anni per la conservazione del vino. Un uso che era uno dei più diffusi nella Roma antica.
Prima di diventare romana, l’anfora (etimologicamente: che si porta dai due lati, munita di due manici) è mediorientale. In contrade dove i deserti sono più numerosi delle foreste, poter fabbricare contenitori a base di argilla era essenziale. Poi, l’anfora passa per la Grecia e diventa una star romana intorno al III secolo prima della nostra era. Viene prodotta a decine di milioni di esemplari ogni anno. Serve a trasportare l’olio, ad alimentare le legioni di vino, ma può anche contenere frutta secca, pesce in salamoia o il famoso garum.
Montagna di rifiuti
Questo oggetto molto comune racconta sia la vita quotidiana romana, sia la globalizzazione condotta in seguito dall’Impero poiché se ne trovano tracce fino in Asia.
Dall’oggetto corrente al rifiuto, c’è solo un passo. Se l’anfora è un oggetto di conservazione, essa non è, da parte sua, affatto conservata dopo l’uso. Il colle del Testaccio a Roma, reso celebre da Pasolini attraverso il suo film Accattone, è in realtà un cumulo di rifiuti composto dai resti di 50 milioni di anfore.[1]
Più romantica e altrettanto rivelatrice dell’importanza delle anfore, soprattutto piene di vino, questa citazione saporita di Marziale:
«La bella Filide mi aveva, durante tutta una notte, prodigato largamente favori di ogni specie. Mentre pensavo, al mattino, di darle, sia una libbra di profumi di Cosino o di Nicero, sia una buona quantità di lana betica, sia infine dieci monete d’oro battute con l’effigie di Cesare, Filide mi salta al collo, imprime sulla mia bocca un bacio lungo quanto quello delle colombe innamorate, e si mette a chiedermi un’anfora di vino.»[2]
Vino ghiacciato
Ma l’anfora ha dovuto affrontare un pericoloso rivale: il barile che, contrariamente a un’idea piuttosto diffusa, non è gallico. La sua origine risale a circa cinque secoli prima della nostra era. Due regioni si disputano la sua paternità. Da un lato la Rezia, situata tra il Tirolo austriaco, i Grigioni e il Friuli italiano fino a Verona. È verosimilmente di questa regione che descrive Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale, quando parla del vino conservato «in recipienti di legno cerchiati» nelle regioni alpine. La descrizione di Plinio vale d’altronde il suo peso d’uva:
«Vi sono, quando il vino è già raccolto, grandi differenze secondo il clima. Attorno alle Alpi, lo si conserva in recipienti di legno, che circondano di coperture, e, durante gli inverni glaciali, allontanano il gelo con dei fuochi. Fatto raro a dirsi, ma talvolta osservato: i barili scoppiano e si formano masse di vino ghiacciato, fenomeno prodigioso, poiché la natura del vino non è di gelare; d’ordinario, non fa che intorpidirsi sotto il freddo.»[3]

Più a sud e meno alpina, l’Etruria, ovvero l’attuale Toscana, una parte dell’Umbria e dell’Emilia-Romagna, costituisce l’altra regione che rivendica la sua primogenitura bottaia. D’altronde, la tecnica di assemblaggio delle doghe per le vasche era infatti ugualmente conosciuta dagli Etruschi come attestano certi dipinti di tombe che presentano senza ambiguità vasche vinarie cerchiate, in particolare quella dei Giocolieri a Tarquinia. Le due regioni sono inoltre abbastanza vicine.
È dunque più che plausibile che barili e anfore abbiano coabitato per parecchi secoli, in compagnia di un terzo attore: i dolia. Queste immense giare in terracotta erano collocate in navi un po’ alla maniera dei container trasportati oggi su super tanker. È d’altronde probabilmente l’alleanza dolia – barili che ha messo fine all’epoca gloriosa delle anfore. Lo storico e archeologo André Tchernia ci fornisce un esempio: «Del vino portato in dolia dalla Campania o dalla Tarraconense risaliva il Rodano fino a Lione, dove era travasato in barili. Altre barche li caricavano allora per fargli risalire la Saona, poi i barili di vino attraversavano su carri attraverso l’altopiano di Langres fino al Reno.»[4]
Per secoli, tuttavia, l’anfora ha fatto resistenza. Come sottolinea Sarah Rey, maître de conférences all’università Polytechnique Hauts-de-France, l’anfora è persino sopravvissuta all’Impero romano, poiché se ne trovano tracce datate all’VIII secolo.[5]
Troppo pesante rispetto al barile, troppo piccola di fronte al dolium, l’anfora è a poco a poco scomparsa dai grandi circuiti commerciali. Poi il barile è diventato il simbolo del trasporto e della conservazione del vino.
Lo è ancora sotto molti aspetti. Ma un po’ come il farro che è stato, nel corso dell’Antichità, soppiantato dal grano e che si ritrova nuovamente sulle nostre tavole, l’anfora riemerge ed è ben più di un’attrazione per le immersioni subacquee. Da una parte, le sue qualità di conservazione sono reali, favorendo un’eccellente ossigenazione del vino. Dall’altra, l’argilla, contrariamente al legno, è un materiale neutro: non altera il gusto originale del vino con note di legno. L’anfora è dunque particolarmente adatta per i vini «nature» dove si cerca soprattutto di esaltare il gusto fruttato.
Comunque sia, i viticoltori di oggi sono senza dubbio ispirati tanto dalle anfore romane quanto dai kvevri georgiani. Utilizzate in maniera ininterrotta durante millenni in Georgia per la fermentazione e la conservazione del vino, assomigliando maggiormente ai dolia che alle anfore, esse sono molto più antiche delle più vecchie anfore mediterranee: se ne sono ritrovate tracce risalenti a 6000 anni prima della nostra era.[6]
[1] Articolo Mont Testaccio su Wikipedia.
[2] Marziale, Epigrammi, libro 12 – LXV: Formonsa Phyllis nocte cum mihi tota se praestitisset omnibus modis largam, et cogitarem mane quod darem munus, utrumne Cosmi, Nicerotis an libram, an Baeticarum pondus acre lanarum, an de moneta Caesaris decem flavos: amplexa collum basioque tam longo blandita quam sunt nuptiae columbarum, rogare coepit Phyllis amphoram vini.
[3] Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXVII, 132: Magna et collecto iam vino differentia in caelo. circa Alpes ligneis vasis condunt tectisque cingunt atque etiam hieme gelida ignibus rigorem arcent. rarum dictu, sed aliquando visum, ruptis vasis sterere glaciatae moles, prodigii modo, quoniam vini natura non gelascit; alias ad frigus stupet tantum.
[4] André Tchernia, «Rome et le vin: l’amphore, le tonneau et les dolia», in L’Histoire, dicembre 2022
[5] Sarah Rey, «Pourquoi faire l’histoire de l’amphore?», presentazione della rivista Faire l’histoire «L’amphore, un standard commercial antique», trasmesso su Arte sabato 20 novembre 2021.
[6] Articolo Kvevri su Wikipedia.
Altri articoli del blog Nunc est bibendum








